GALDÓS Fantasmi più veri della realtà

Autore di molti romanzi a sfondo sociale, lo scrittore spagnolo nutrì anche una vena surreale che risale a Poe, Hoffmann e Nerval

Che cos’è il fantastico? Todorov risponde con una serie di approssimazioni che escludono il carattere di un genere proprio, autonomo, considerandolo inoltre di breve durata e situandolo alla frontiera fra «il meraviglioso e lo strano». La definizione (o mancanza di definizione) consente di avvicinarsi con sicurezza al libro di Benito Pérez Galdós che porta il titolo Racconti fantastici (Donzelli, pagg. 194, euro 20, a cura di Maria Rosaria Alfani). Al nostro lettore ricordiamo che Galdós è uno dei grandi scrittori realisti della Spagna ottocentesca e senza dubbio la figura di maggior prestigio e respiro europeo. Autore di romanzi a sfondo sociale - quali Gloria, Misericordia, Donna Perfetta, Fortunata e Giacinta e la serie degli Episodi nazionali -, la sua opera ha inciso profondamente sulla cultura del Novecento ispirando uomini di cultura ed artisti, fra cui spicca il nome di Luis Buñuel che dai racconti galdosiani ha tratto numerosi spunti e film, come Nazarín e soprattutto l’indimenticabile Tristana, interpretato dalla nota attrice Catherine Deneuve.
Avvicinarci all’opera di Galdós è entrare in un universo urbano, ricco di personaggi semplici, dotati di gran generosità e invenzione, in contrasto con l’egoismo chiuso della classe borghese. Un macrocosmo abitato da un’umanità viva e dolente, situato nei quartieri tumultuosi della Madrid popolare, oppure proveniente da affreschi epocali, dove al quadro storico e alla descrizione psicologica dei personaggi si alternano momenti di pura evasione, realizzati attraverso il sogno e l’inverosimile. Motivi che devono molto alla precedente letteratura europea, ad esempio all’opera di Poe, Hoffmann o al fantastico inquietante di Nerval; oppure - volendo fare un’altra lettura - provengono da una caratteristica propria della cultura spagnola che in genere mostra un approccio al reale troppo intenso e ravvicinato, tale da trasformarlo a volte in evento epifanico e, quindi, in visione e surrealtà.
Pensiamo ai quadri di Zurbarán, osserviamo le sue nature morte, i cesti, le brocche così vere, ma che respingono ogni processo di assimilazione con la realtà. Aleggia in quelle immagini un’aura sospesa di mistero, un alone luminoso che avvolge l’oggetto, rifiutando l’operazione di approssimazione ed equazione con il banale quotidiano. Qualcosa di analogo accade in alcuni romanzi di Galdós, come in Misericordia e in particolare nel personaggio della domestica Benina, pronta a ricorrere all’immaginazione per trasformare l’ambiente di povertà della casa che la lega alla padrona Donna Paca: le sue ingenue fantasie, collimanti a volte con il reale, creano una zona refrattaria al peso ingombrante dell’oggettività. Si tratta di brevi momenti che consentono l’evasione, il sogno, l’invenzione, un ambito raggiungibile solo attraverso la fantasia.
Nei Racconti fantastici - che riunisce spunti pubblicati fra il 1865 e il 1897, destinati ai lettori di quotidiani e poi apparsi in antologie parziali - Galdós apre continui varchi narrativi che rifiutano il principio del verosimile per abbandonarsi al tempo stupito e straniante della surrealtà. Occorre però dire che a dominare la pagina non è il mondo dell’incubo o del terrore, quanto piuttosto la percettività di lievi segni misteriosi e parvenze sospette che circondano la vita umana, difficili da ricondurre a una spiegazione razionale, e di fronte alle quali l’autore adotta un atteggiamento ironico e divertito. Ad esempio, nel racconto d’apertura lo scrittore si sofferma a parlare dei rumori insoliti della natura e degli oggetti: fruscii, brusii, lamenti e raffiche del vento, ondeggiamento di alberi e foglie, musica vellutata della seta; lo scricchiolìo improvviso del legno, il tonfo sordo delle scarpe sul pavimento o un suono secco, acuto, che attraversa il silenzio della notte. Insomma, il presentimento di una vita misteriosa che pulsa intorno a noi e spinge a fantasticare, ad immaginare: immaginare che cosa?
L’autore non va oltre l’ombra del sospetto, rifiutando la presenza del demoniaco o del sovrannaturale, interessato solo a prefigurare zone incerte di una realtà gravida di incanto e stupore, ma anche ricca di inquietudine. Nel racconto Dov’è la mia testa, il protagonista scopre una mattina di non avere più la testa sul collo; durante la notte, non potendo dormire a causa di un grande bruciore, se l’era tolta. Va dunque alla sua ricerca, gira angosciato per le vie e i quartieri della città finché la vede esposta nella vetrina di un negozio di cappelli, mirabilmente pettinata e con la barba curata. Emozionato entra nel locale, temendo che la sua decapitazione possa suscitare stupore e ilarità, ma gli viene incontro una bella donna che lo invita con una mano a sedersi, mentre con l’altra agita un pettine, pronta a sistemare sul suo collo la testa ritrovata.
Tutto qui il fantastico bonario e infantile proposto dal libro di Galdós? Diciamo che non è solo questo, anche se la cornice che lo accompagna è quella del sogno e della stravaganza più che dell’incubo, ed è visibile la propensione dello scrittore a cogliere la magia del quotidiano attraverso gli effetti del vino, lo stordimento, la sonnolenza. Non mancano tuttavia motivi irrazionali di conio letterario, come quello di La congiura delle parole, in cui articoli, sostantivi e pronomi si mettono bizzarramente a dialogare fra loro rivendicando la propria autonomia; oppure si legga il racconto Il romanzo del tram, che narra un viaggio attraverso le strade di Madrid, dove si incrociano conversazioni, persone, letture, dialoghi e monologhi, spazi interni e scorci esterni, in un groviglio confuso di realtà e immaginazione, facilitato dal torpore in cui è caduto il protagonista della storia.


Potremmo definire l’universo fantastico del libro un mondo minimalista, relegandolo alla stagione giovanile dell’autore; di certo i brevi interstizi dell’irrazionale illustrati da Galdós, scrittore realista, rappresentano un chiaro invito a cogliere «l’inverosimile» - chiamiamolo così - anche nella grigia realtà del quotidiano.

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