Carissimo dottor Massimiliano Lussana, mi ha tanto stuzzicato l'album dei ricordi della vecchia Genova, che sento la necessità di inserirmi tra chi assapora la nostalgia di ciò che, pur non esistendo più, è rimasto nell'animo.
Sono fedele lettore del Giornale sin dalla sua nascita (con una «vacazio» di un paio di mesi - aprile/maggio 1994 - quando Montanelli lasciò il nostro quotidiano per fondare La Voce).
Non sono genovese. Ma ho avuto rapporti con questa città sin da 1935 (ho 88 anni) e tuttora ci vivo. (Lo sa lei che negli anni Trenta in via Antiochia v'erano ancora i lampioni a gas?).
Era l'agosto del 1935 quando mio padre, sbarcato e passato in forza al Comando Marina di Genova sin dal febbraio precedente, mi portò per la seconda volta e definitivamente a Genova da Monopoli. Fu allora che iniziò la mia vita nella nuova casa, nella nuova città e nella nuova famiglia della «zia Lina». L'abitazione della «nuova zia» era in via Antiochia, alle spalle del centrale corso Buenos Aires, in prossimità della stazione ferroviaria di Brignole.
Si viveva in armonia come una vera famiglia; papà dormiva con la «zia» Lina (come ormai la chiamavo) nella camera matrimoniale, io e Maria Ida su due lettini, separati da un comodino, nella stanza accanto mentre nell'ultima alloggiava, in sub-affitto, una maestra di quaranta-quarantacinque anni che pranzava e cenava nella sua camera utilizzando però la cucina della zia Lina. Questa maestra aveva sostituito la signora Garibaldi che si era ritirata in un pensionato per anziani.
A tavola si stava sempre insieme e il centro del nucleo era mio padre. D'altro canto la «zia Lina» per tanti anni era rimasta sola, da quando cioè, con i tre figli piccoli, suo marito era partito per l'America in cerca di fortuna. Col tempo c'era riuscito, diventando cuoco in un ristorante di New York, cosicché, da allora, mandava alla sua famiglia cinquecento lire ogni mese. Questa somma, aggiunta a quella che papà le versava per l'ospitalità prestataci, dava la possibilità alla zia Lina di vivere dignitosamente. Mi ero subito adattato al nuovo ambiente, anche se molto diverso da quello di Monopoli. Ma ero abituato ai cambiamenti e lo spirito di sopravvivenza mi aveva insegnato a non affrontare le nuove avventure con ostilità. In ogni nuova situazione, qualunque fosse, cercavo, come d'altronde ho sempre fatto nella vita - di scavarmi una buca, costruirvi intorno una trincea e una via di fuga per poi muovermi con sicurezza secondo le esigenze del momento, sicuro di cavarmela.
Inoltre, ero contento di risiedere in una grande città perché mi ricordava Trieste, Bari, Milano... e io, già allora, amavo le grandi città. La città non mi fa sentir solo e tuttavia mi dà la possibilità di isolarmi. È come stare a teatro: guardo gli attori recitare la vita mentre, solo e in silenzio, penso, soffro e imparo.
Ma continuerò ad inviarvi ricordi nei prossimi giorni...
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