Il giallo del terzo kamikaze: già a luglio indagava la Digos

In principio è stato Mohamed Game. Il kamikaze, la scheggia impazzita, il lupo solitario. L’uomo che si arma e colpisce. Poi, la piccola cellula venuta dal nulla. Tre nordafricani che sfuggono alla rete di protezione degli apparati di intelligence. Ora, qualcosa cambia. Israfel Mohamaed Imbaeya, cittadino libico, uno dei tre indagati per l’attentato alla caserma di piazzale Perrucchetti di lunedì, non era uno sconosciuto. Da circa tre mesi la Digos aveva chiesto notizie di lui. Precisamente, è accaduto l’8 luglio scorso. Gli agenti della divisione investigazioni della questura hanno prelevano il suo fascicolo dagli archivi dell’ufficio immigrazione di via Montebello. Quel fascicolo, da allora, non è più tornato al suo posto. Men che meno, ora che gli inquirenti stanno scavando per chiarire i legami e i presunti obiettivi del gruppo terroristico. Il soggetto - come si dice nel gergo degli 007 - era «attenzionato».
Non è chiaro, al momento, il motivo particolare che abbia spinto la Digos a raccogliere informazioni su Israfel. Un dettaglio di questo tipo si presta a diverse interpretazioni, tenendo comunque presente che la principale funzione della polizia investigativa è proprio l’antiterrorismo. Israfel, in effetti, era stato monitorato dagli agenti per atteggiamenti radicali, in un’occasione anche perquisito. Un’attività che, però, non aveva portato a nessuna evidenza investigativa. Ma il fatto che da tre mesi il suo nome non fosse sconosciuto, potrebbe riscrivere la polemica nata nelle ore immediatamente successive all’attentato tra il presidente del Copasir, Francesco Rutelli, e il procuratore aggiunto Armando Spataro. Rutelli, intervenendo lunedì mattina su Radio 24, aveva spiegato che nel corso di «attività investigative di alcune settimane fa erano state colte conversazioni su una caserma che veniva identificata come caserma Perrucchetti». Immediata la replica di Spataro, secondo cui «la caserma non è mai stata nominata in tutte le indagini milanesi», e anzi «non ci è mai arrivata una notizia da qualsiasi fonte preannunciante progetti di attentato ai danni di quella caserma». Il botta e risposta si era risolto nel pomeriggio, con la marcia indietro del numero uno del comitato parlamentare per la sicurezza. «Mi riferivo alle indagini di 10 mesi fa», aveva detto Rutelli, indicando un’altra operazione della Digos nella quale si parlava della «Santa Barbara» come un obiettivo possibile di una cellula terroristica poi smantellata.
Resta, dunque, un giallo. Come è ancora da chiarire quali fossero le reali intenzioni dei tre nordafricani arrestati tra lunedì e martedì, a cui ora è contesta anche l’aggravante della finalità del terrorismo. Perché l’impressione degli inquirenti è che i confini dell’indagine siano ormai tracciati, e che poco possa esserci oltre quel perimetro. Il materiale potenzialmente esplosivo è stato trovato, così come il covo nel quale il gruppo faceva i suoi esperimenti. Un specie di laboratorio da alchimisti arrangiati, con pentoloni sul fuoco, bilance e mascherine. All’apparenza un quadro di generale improvvisazione e dilettantismo. Ma restano da scandagliare gli eventuali legami tra Game, Kol e Israfel con altri soggetti legati alla rete del terrore. E la chiave per diradare gli ultimi dubbi è nei tabulati telefonici e nel computer del kamikaze. Sul desktop, la foto di Bin Laden. È certo che Game passava molte ore davanti al pc.

Sicuramente - spiega un investigatore - per abbeverarsi alla sorgente del fanatismo via internet, e per documentarsi sulle tecniche di fabbricazione di un ordigno esplosivo. Da accertare, però, rimangono possibili contatti con altre persone con cui avrebbe potuto condividere i progetti criminali, e la portata di eventuali scritti contenuti nella memoria elettronica.

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