«La gioia è ovunque ce n’è di superflua», l’illusione di Tagore

Fu tante cose Rabindranath Tagore: poeta, visionario, riformatore. Sognò un mondo basato sulla comprensione fra i popoli, sul dialogo fra le culture, sulla «perfetta bontà». Vinse il premio Nobel per la letteratura nel 1913, fondò nei pressi di Calcutta - la città dove era nato - Shantiniketan, una scuola in cui allievi e maestri si incontravano all’aperto per dar vita a conversazioni in una inedita mescola filosofica orientale-occidentale.
La sua produzione letteraria non conobbe confini, tanto che passò felicemente dalla poesia alla narrativa, dalla drammaturgia alla saggistica. E si cimentò anche con il racconto, come testimonia la raccolta I misteri del Bengala (Donzelli, pagg. 174. euro 19.50, traduzione di Marcella Falci) in cui Tagore è capace di amalgamare le atmosfere della novella fantastica americana e inglese dell’Ottocento con la tradizione letteraria sanscrita e i grandi temi dell’idealismo indiano. Da una Calcutta immersa in una nebbia che ricorda la Londra vittoriana, dalle lunghe ombre gettate fra i villaggi sperduti, si fa avanti scricchiolando un serraglio di scheletri, fantasmi e morti viventi, bizzarre presenze che nascondono un pensiero più vasto. Ogni racconto, a leggerlo in profondità, svela una dimensione filosofica nutrita dalla visione idealista e mistica, dal concetto di maya, l’illusione, in grado di rendere labile il confine tra vita e morte.
Emblematico in questo senso il racconto La morta vivente in cui una vedova viene creduta viva quando in realtà la morte aleggia attorno a lei (ha perduto tutti i parenti), e poi viene data per morta quando invece un barlume di vita ancora lo possiede. E poi c’è la potenza e il mistero del sogno che in India è una prima testimonianza di realtà, e l’incertezza riguardo a ciò che è vero perché così ritenuto dalla moltitudine, rispetto a ciò che è vero in quanto sentito soggettivamente come tale. Nei racconti di Tagore figure spettrali si aggirano fra i viventi e sembrano dire che vita e morte sono legate dal medesimo sostrato illusorio, e ci sono pazzi che corrono attorno a case divoratrici di uomini urlando «Non vi avvicinate, tutto è falso!». E poi la forza dell’amore che valica i confini del tempo, la sua voce che sussurra da dietro le cortine mondane, l’amore come legge cosmica e mastice universale a reggere l’intera visione di Tagore che è come un balsamo sulle ferite del nostro secolo diviso.


Nel 1913, durante una conferenza davanti agli studenti di Harvard, il poeta bengalese disse che «la gioia è dovunque: ce n’è di superflua», e questo stato d'animo «esiste per dimostrare che i vincoli della legge si possono spiegare solo per mezzo dell’amore, che essi e l’amore sono come il corpo e l’anima». Parole che nelle stanze in cui si elaborano i destini del mondo attuale bisognerebbe che qualcuno leggesse. E meditasse, posto che l’uomo non abbia smarrito del tutto la facoltà della contemplazione.

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