Roma La linea ufficiale alla vigilia del «D-Day» è: rigoroso silenzio. Giulio Tremonti evita microfoni, taccuini, telecamere e virgolette e si trincera nel suo ostinato distacco pubblico dalla grande trattativa sulla manovra. Così, anche nelle ore decisive di questo faticoso lavoro di levigatura e di composizione di interessi contrapposti, il ministro dellEconomia continua a incarnare il ruolo del convitato di pietra, del grande assente che incombe sui presenti pur non comparendo mai sulla scena.
La domanda ricorrente in queste ore è semplice: cosa farà Tremonti? Accetterà laccordo che oggi dovrebbe essere suggellato nel vertice finale con Silvio Berlusconi e Umberto Bossi? Oppure ribadirà la linea che venerdì sera avrebbe comunicato direttamente al premier: semaforo rosso su tutti gli emendamenti e fedeltà allo spirito iniziale della manovra? Quella stessa manovra - avrebbe detto il titolare dellEconomia - «votata allunanimità dallintero governo e ora diventata soltanto mia». Nessuno nasconde che la situazione sia tesa, i rapporti personali sfilacciati, la riserva della reciproca pazienza esaurita o comunque ridotta ai minimi termini. Una situazione che potrebbe fare da preludio a un clamoroso addio, da consumare già nelle prossime ore oppure alla fine delliter parlamentare della manovra, visto che per Tremonti non conterebbero soltanto i saldi invariati ma anche la qualità dei correttivi apportati al testo e i potenziali effetti depressivi che potrebbero innescarsi sul ciclo economico.
Di certo il ministro si è accorto che per lui il vento è cambiato. Lanno scorso, forte di una credibilità che ne faceva linterlocutore privilegiato dellItalia in Europa, aveva presentato davanti alla platea ciellina una sorta di grande piano decennale. Era inserito nella rosa dei possibili successori per Palazzo Chigi. Veniva omaggiato, pressoché in tutte le dichiarazioni dettate da esponenti del governo, della classica frase-inno: «Meno male che abbiamo Tremonti». Ed era ben consapevole di avere sulle spalle linvisibile mantello dellintoccabilità. Una condizione di forza che lo aveva portato a pescare dalla fiondina delle sue citazioni addirittura un richiamo a Enrico Berlinguer. «Lausterità sostenuta da Berlinguer è un riferimento etico-politico da non trascurare» disse in quelloccasione.
Oggi, accusato di essere un problema più che una risorsa nel centrodestra (copyright Sandro Bondi), con una poltrona sempre più traballante, il ministro dellEconomia ha incassato silenziosamente i fierissimi colpi inferti alla sua manovra e si è tenuto alla larga da tutte le questioni più spinose di una trattativa che sembra ormai viaggiare su gambe e idee diverse dalle sue. E a Rimini, dopo aver costruito un complesso puzzle di citazioni, ha rispolverato una sua famosa metafora: quella della crisi-videogame in cui i mostri si presentano ogni volta con una faccia diversa. «Non siamo ancora al game over della crisi». Infine si è lanciato in un lungo elogio degli eurobond, strumento fondamentale di stabilità e nuovo driver per la crescita. Un rilancio al tavolo del dibattito accolto senza entusiasmo da economisti e interlocutori di peso. Fabrizio Saccomanni, ad esempio, candidato forte alla successione di Mario Draghi, ha definito quella degli eurobond una «soluzione non percorribile». «Lo può essere solo per finanziare progetti di investimento a livello europeo ma non per sostituire il debito pubblico dei paesi». Una bocciatura condivisa da Giuliano Amato per il quale con questo strumento «diamo limpressione ai paesi che stanno meglio che gli scarichiamo la carte di picche in mano. Noi abbiamo mangiato e loro pagano il conto». E accolta con scetticismo da Mario Monti: «Difficile fare breccia sulla Germania».
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