Giugno 1967, la settimana che abbatté il mondo arabo

Comunicazioni, addestramento, logistica Così Israele vinse la Guerra dei sei giorni

Giugno 1967, la settimana che abbatté il mondo arabo

Matteo Sacchi

nostro inviato a Gorizia

Per il mondo la Guerra dei sei giorni iniziò con un rombo cupo e improvviso. Quello dei cacciabombardieri israeliani che, dopo un lungo volo radente, salivano di quota per buttarsi in picchiata sopra gli aeroporti militari egiziani, alle 7 e 45 (ora israeliana) del 5 giugno del 1967 (siamo quasi al cinquantenario). Era l'operazione Moked che l'Idf, le forze di difesa israeliane, avevano pianificato in ogni dettaglio per cinque anni.

Per gli avieri egiziani che correvano verso i veicoli fu questione di pochi secondi prima di essere investiti dal fuoco nemico. Per l'aviazione israeliana invece quella manciata di attimi fu il coronamento di una lunga progettazione. Era iniziata con il dispendiosissimo (200 milioni di dollari) acquisto dall'aviazione francese di 76 Dassault Mirage IIICJ. La «J» che stava per juif, ebreo in francese, indicava speciali modifiche. L'aggiunta di due cannoni da 30 millimetri e di agganci subalari per bombe da attacco al suolo. Lì andavano agganciate le speciali bombe a razzo pensate per distruggere le piste degli aeroporti nemici. La progettazione era poi proseguita con un addestramento forsennato dei piloti (nel deserto del Negev bombardavano a ripetizione perfette copie delle basi aeree egiziane) e del personale di terra, che riusciva a riarmare e rimettere in volo un aereo in soli 10 minuti. In pratica ogni aereo poteva così svolgere otto missioni al giorno. Per fare un confronto, in condizioni normali, gli egiziani erano in grado di fare alzare in volo soltanto il 30 per cento dei loro aerei.

Ma anche così le cose avrebbero potuto andare storte: i giordani, dotati di un sistema radar avanzato ed efficiente, acquistato dagli inglesi, cercarono di avvertire gli egiziani del fatto che da Israele si erano alzati in volo quasi tutti gli aerei. Ma gli egiziani avevano appena cambiato i loro codici di trasmissione segreti senza avvertirli e il messaggio non poté essere decifrato. Il risultato fu che la forza aerea del più potente dei Paesi arabi che circondano Israele fu annientata in meno di mezz'ora. Ogni base subì tre attacchi in meno di 20 minuti. Poi seguì una seconda ondata. Nello spazio di due ore e mezza gli egiziani persero 293 aerei. Gli israeliani soltanto 16, abbattuti o gravemente danneggiati. Intanto anche nel Sinai le truppe di terra di Tel Aviv avevano iniziato ad avanzare. Ma era soltanto una delle direttive d'azione di questa macchina bellica precisa come un cronometro. Alle 12 e 45 l'aviazione israeliana iniziò a colpire Giordania, Siria e Irak. In breve vennero distrutti altri 119 aerei. A quel punto restava da combattere quello che sarebbe stato un duro scontro di terra, uno scontro ormai completamente sbilanciato. Come dimostrano anche i numeri: alla fine del conflitto i morti israeliani furono 679, quelli arabi circa 21mila.

Di come si sia svolto il conflitto, di come si sia originato e di quali siano state le sue conseguenze si discute oggi alle 15 sotto la tenda Erodoto al festival goriziano èStoria. A farlo saranno Ahron Bregman, storico del conflitto arabo-israeliano che insegna studi strategici a Londra ed è autore de La vittoria maledetta. Storia di Israele e dei Territori occupati (appena pubblicato da Einaudi), e Simon Dunstan, storico militare autore de La Guerra dei sei giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria (Leg). Dunstan nel suo lavoro ha ricostruito in maniera certosina i motivi che portarono alla guerra. Perché, se l'attacco partì da Israele, il livello delle pressioni da parte dell'Egitto e dei suoi alleati era diventato davvero intollerabile. Anche a causa degli errori della diplomazia internazionale. Nel maggio 1967 Nasser aveva ricevuto falsi rapporti dall'Unione Sovietica secondo cui Israele - che aveva subito non pochi attacchi contro i civili sui confini con l'Egitto e la Siria - stava ammassando truppe al confine settentrionale. I rapporti erano gonfiati, ma gli egiziani non se ne accorsero. Il presidente egiziano, anima del panarabismo, fece la voce grossa e chiese l'allontanamento delle forze di interposizione internazionali da Gaza, dal Sinai e da Sharm el-Sheikh. Era più che altro una mossa propagandistica. Però il segretario generale dell'Onu, il birmano Maha Thray Sithu U Thant, lo accontentò a sorpresa, incastrando il presidente egiziano nella sua stessa propaganda militarista e impedendogli di fare marcia indietro. Il 22 maggio Nasser chiuse alle navi israeliane gli stretti di Tiran, azione che, sin dal 1957, Israele aveva dichiarato che sarebbe stata considerata né più né meno che un atto di guerra. E a quella mossa l'attacco israeliano rispose. Gli arabi vennero travolti non perché l'armamento israeliano fosse di molto superiore, anzi, in certi settori, come i carri armati, era addirittura abbastanza obsoleto (mezzi della Seconda guerra mondiale un po' modernizzati). Ma perché Israele aveva investito in comunicazioni, addestramento e logistica. Per citare le parole del brigadiere generale egiziano Tahsin Zaki, «Israele si era preparato per anni a questa guerra mentre noi ci preparavamo alle parate. Le esercitazioni per la parata annuale del giorno della rivoluzione duravano settimane... ma non si parlava di prepararsi alla guerra».

Ma basta vincere? È questo il tema su cui si interroga invece Bregman. Forse quella guerra era inevitabile, ma il retaggio dei Territori occupati ha avvelenato per anni, e non ha ancora smesso di avvelenare, la vita quotidiana degli israeliani.

Lo sapeva bene l'uomo che fu comandante in capo dello stato maggiore durante quella guerra, Yitzhak Rabin, ecco perché continuò sempre a perseguire una pace sostenibile. Gli costò la vita e forse potremmo considerarlo una delle vittime di quella grande e spettacolare vittoria di cui fu, assieme a Moshe Dayan, tra i principali artefici.

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