L’hanno chiamato «il Golgota del fante». Antonio Scrimali era un bambino quando vi salì la prima volta, tenuto per mano dal padre Ernesto. «La Grande guerra era finita già da vent’anni eppure mio papà di notte si svegliava ancora di soprassalto, sentivo le urla provenire dalla camera da letto accanto alla mia, “chi va là? chi va là? dai! dai! all’assalto!”, e la mamma che cercava di calmarlo, “buono, buono, non è niente, Ernesto, è solo un incubo”. Aveva un bel dire, povera donna, ma come fai a dimenticarti un corpo a corpo all’arma bianca, a rimuovere dalla memoria l’ordine di affondare la baionetta nel ventre del nemico, il colpo più facile a darsi?».
Da allora, Antonio Scrimali non è più riuscito a smettere. Il Carso è diventato la sua ossessione. Lo ha battuto metro per metro, roccia per roccia, dolina per dolina, grotta per grotta, circa 90 chilometri in lunghezza, dai 10 ai 18 in larghezza, «e a ogni passo mi sembrava di sentir risuonare la disperata invocazione d’aiuto dei 600.000 morti del ’15-’18, ben oltre la metà dei quali sacrificatisi sull’altopiano fra Italia e Slovenia: “Ma quando? Quando vi ricorderete di noi?”».
Anche oggi, che ha 82 anni e le gambe malferme, non può staccarsi da quel paesaggio «brullo, spietatamente pietroso, espressione naturale della desolazioneche arreca all’animo una penosa malinconia, direi quasi un senso pauroso della vita terrestre che si arresta sotto i piedi degli uomini», come scrisse nel suo diario il tenente Achille Contino, ufficiale della brigata Pisa. «La sera non lo vedo rincasare e sto col cuore in gola», racconta Luciana Laurenti, sua moglie da 52 anni. «In passato a volte si tratteneva per tutta la notte e quando tornava da quell’enorme cimitero mi diceva: “Non mi lasciavano venir via...”». Ma il più delle volte lei era al suo fianco, «è stata la mia sherpa, ha portato molti zaini e ha versato molte lacrime», ne tesse lodi Scrimali.
Martedì, 4 novembre, sarà ancora una volta lassù. È il 90˚ della Vittoria, parola che in tre ore di dialogo mai una volta gli esce dalle labbra, perché le guerre non si vincono mai, si perdono sempre, insieme con le vite: «I politici invaderanno Trieste. Lascio a loro le orazioni ufficiali. Io sto con i morti. Andrò con la bandiera italiana a quota 118, sopra il monte Sei Busi. È il massimo che i miei arti acciaccati possono concedermi. Ma col cuore sarò sul Vodice, dove due battaglioni alpini, il Moncenisio e il Val Varaita, furono inghiottiti nel nulla, non ci resta più niente di loro neppure negli archivi, dissolti, come se quegli uomini non fossero mai esistiti».
Da 60 anni, con metodo scientifico, Scrimali batte il Carso palmo a palmo in cerca di queste vite perdute. Ha inventariato oltre 1.700 fra lapidi e cippi, spesso semplici graffiti incisi con la punta della baionetta o con un ferro arrugginito sulle rocce, nelle trincee, nei ricoveri, testimonianze indelebili prima di affrontare la morte. Li scolpirono i soldati delle 200 brigate italiane, soprattutto della fanteria, ma anche degli alpini, dei bersaglieri e del genio zappatori e minatori, «talpe umane, li avevano definiti, perché bisogna sotterrarsi per sopravvivere». La stessa cosa fecero i loro nemici arruolati dagli Asburgo, «austriaci, honvéd dell’esercito ungherese, cecoslovacchi, sloveni, croati, rumeni e dalmati, i più tremendi per corporatura e ferocia». Scrimali ha realizzato, senza saperlo, la profezia evangelica: «Grideranno le pietre». Che è anche l’esergo del suo ultimo libro, edito dall’ufficio storico dello Stato maggiore dell’ Esercito: «Se un giorno gli uomini taceranno, se l’ingratitudine ucciderà ogni ricordo, grideranno le pietre». Sulla mia copia ha voluto aggiungere di suo pugno questa dedica: «In ogni graffito anche coperto dal muschio c’è una scintilla d’eternità».
Di libri sulle iscrizioni ne ha già pubblicati sette, sei dei quali in collaborazione col figlio Furio. Il suo mondo si misura in quote. «Quota 77, sopra Monfalcone. Teatro di scontri all’arma bianca, al termine dei quali il comandante scrive: “Non posso descrivere le perdite”, non sapeva neppure quanti uomini erano morti, talmente erano tanti. Quota 118, Carso isontino. Era detta “terra di nessuno”. Conquistata, persa, conquistata, persa, ogni volta un’ecatombe. Quota 65, sopra cave di Selz. Fu tenuta dalla fanteria per due anni. In una nicchia si legge: “Di qua non si passa”. Poco distante, tre nomi: “Loppi A. 1886, Meneghello M. 1895, Molinari G. 1895”. Tre fanti del 17˚ reggimento brigata Acqui, gli ultimi due poco più che ventenni. I loro nomi non figurano fra i caduti al sacrario di Redipuglia. Magari si fossero salvati... Purtroppo la data incisa nel masso in numeri romani, 17aprile 1916, documenta che era l’antivigilia di un assalto alle linee nemiche finito con una strage. E tutto questo perché? Per progredire sul terreno di 15 metri. Quindici metri, capisce? Ogni volta che ci vado, sto male per tre giorni. Gli ufficiali impartivano ordini di totale insensatezza».
Fino al momento d’andare in pensione, Scrimali
ha lavorato nel laboratorio chimico della
Camera di commercio triestina, «un’eredità
asburgica, avevo il compito di controllare gli
alimenti, il caffè soprattutto». Sul Carso c’è
sempre andato nel tempo libero, sacrificando
anche le ferie. Ora a portare avanti la sua opera
di catalogazione dei graffiti contribuisce il
Gruppo ricerche e studi della Grande guerra,
da lui stesso fondato all’interno della Società
alpina delle Giulie, sezione del Cai di Trieste,
la città dov’è nato e dove vive.
Scrimali non è un cognome di qui.
«Siciliano di Licata, Agrigento. Mio padre era
geometra. Venne a Trieste e finì la carriera come direttore
del Magistrato alle acque. Era nato
nel 1894. Andò a combattere sul Carso. Un
giorno, ridotto allo stremo dalla sete, si fece
dare le borracce da 12 commilitoni, uscì dalla
trincea e s’incamminò allo scoperto verso una
pozzanghera per riempirle d’acqua. Un soldato
austriaco fece altrettanto. “Quando fummo
vicini, mi sorrise”, raccontava».
Una sospensione dell’orrore.
«Non fu l’unica. Alla Trincea delle Frasche, dove
cadde il sindacalista Filippo Corridoni, si
legge: “La comune pietà ebbe il sopravvento”.
Il comandante italiano e quello austriaco concordarono
un’ora di tregua per contare i cadaveri.
Da quel 23 ottobre 1915 fu comminata la
corte marziale agli ufficiali che interrompevano
le ostilità per ragioni umanitarie. A parte il
freddo, la fame e le malattie, il tormento peggiore
era l’immobilità carsica, marcire nello
spazio di due metri, nell’attesa di un cambio
chenonarrivava mai. Sotto la pioggia, l’argilla
rossastra del Carso formava una crosta compatta
su scarponi e mollettiere, impedendo
persino di sciogliere i lacci e scalzare i piedi, e
s’impastava con capelli e barba incolta, fino a
rendere impossibile il pettinarsi. C’era un amico
napoletano di mio padre, Crucellà si chiamava,
che voleva cantare a tutti i costi. Il comandante
glielo vietò. “Ma se io non canto,
muoio”, disse. E intonò ’O surdato nnammurato:
“Oje vita, oje vita mia, oje core ’e chistu
core, si’ stata ’o primmo ammore, e ’o primmo
ell’ùrdemosarrajepe’me”. Dalla trincea opposta,
solo 30 metri, applaudirono anche gli austriaci».
Lei ha combattuto nella seconda guerra mondiale?
«Undici mesi. Per metà credendo alle lusinghe
dei partigiani sloveni, per l’altra metà con la
guardia civica agli ordini del podestà, poi con
Giustizia e libertà. Alla fine ero ricercato da
tutti. Mi salvò il sanatorio: due anni a Sondalo».
E al ritorno ha cominciato a scavare sul Carso.
«Sì, attraversavo il posto di blocco alleato ed
entravo in territorio sloveno. Per i titini era
inconcepibile che un uomo andasse a cercare
le memorie di altri uomini insepolti da
trent’anni. Mi sottoponevano a umilianti perquisizioni
corporali. Ho trovato pezzi di baionetta,
calci di fucile, rasoi, forbici, gavette, tabacchiere
e ossa, tante ossa, sparse nelle fosse
comuni. In guerra non c’era il tempo per seppellire
le salme. Ai comandanti toccava i lcompito
più ripugnante: sparare il colpo di grazia
ai feriti che rantolavano con la viscere di fuori
o le gambe dilaniate. Il giorno dopo chi non
rispondeva all’appello era considerato disperso,
a meno che un altro soldato non testimoniasse
d’averlo visto morire. Ho dato sepoltura
a bracciate di teschi, tibie, femori. Io e la
mia morosa, quella che poi sarebbe diventata
mia moglie, ci vergognavamo a scambiarci le
prime effusioni sul monte San Michele, ci sentivamo
addosso gli occhi dimigliaia di defunti».
Perché decise di avviare
queste ricerche?
«I professori insegnano la
storia. Io ci sono entrato. Se
non conosci il campo di battaglia,
nonpuoi capire vittorie
e sconfitte. Mi ha guidato
la pietas. Il Comune campano
di Cava de’ Tirreni è riuscito col mio aiuto a compilare
l’albo d’oro di tutti i suoi
cittadini immolatisi al Nord.
Per anni ho indicato amadri
e padri il luogo esatto dov’erano caduti i loro figli.
Oggi indico a figli e nipoti
il luogo
esatto dove sono caduti i
loro padri e nonni. Talvolta
mi basta una data, il nome
del reparto, un graffito. Ne
ho riportati alla luce di commoventi. “Negli
anni più belli i giorni più tristi”, a Casera Pramosio,
Alpi carniche. “Ivi s’acqueta l’alma sbigottita”,
un versetto del Petrarca inciso sopra
una caverna a quota 265 a testimonianza del
senso di sicurezza che i fanti provavano rifugiandosi
in quella spelonca sulle alture del
Nad Logem, insanguinate da spaventose carneficine
durante l’ottava e la nona battaglia
dell’Isonzo».
Ha fatto tutto da solo?
«All’inizio sì. Poi con l’aiuto di tanti giovani
volontari ho sistemato trincee, tolto la vegetazione
dalle lapidi, riaperto le caverne, ripulito
e reso sicuri i sentieri, ritrovato luoghi della
memoria come il “valloncello dell’albero isolato”
della poesia San Martino del Carso di Giuseppe
Ungaretti, che lì combatté nell’agosto
del ’16: “Di queste case / non è rimasto / che
qualche / brandello di muro./Di tanti / chemi
corrispondevano / non è rimasto / neppure
tanto. /Ma nel cuore / nessuna croce manca. /
È il mio cuore / il paese più straziato”. Oggi
trovo migliaia di escursionisti che vagano fra
le doline senza sapere nemmeno loro il motivo.
Perché siete venuti qui?,domando.“Dovevamo”,
mi rispondono. Spesso accompagno
le scolaresche. Alla fine le maestre chiedono
quanto mi devono per il disturbo. Non voglio
niente, neppure un euro: mandatemi solo i temi
svolti in classe dai vostri alunni».
Secondo lei perché quei soldati sentirono il
bisogno di incidere parole nella pietra? Pensavano
che un giorno sarebbe arrivato uno Scrimali
a leggerle?
«Per non essere dimenticati. Noi italiani dimentichiamo
facilmente, a cominciare dal fatto
che abbiamo contratto un debito enorme
con un’intera generazione mandata al macello,
sacrificatasi per obbedire a ordini inconcepibili,
spesso per conquistare 30 metri in più
di reticolato».
A quali ordini si riferisce?
«Pensi alla disfatta di Caporetto. Non crederà
mica che sia stata colpa della truppa? Nessun
comandante di buon senso avrebbe dovuto
tenere le posizioni sulla sinistra orografica dell’Isonzo.
Hamai visto il Merzli, non a caso passato
alla storia come “il monte dell’assurdo”?
Potevi scalarlo soltanto con le corde. Ma l’ordine
era: dove s’è conquistato un metro col sangue
dei fanti, non si molla. In Francia i tedeschi
facevano ritirate strategiche anche di 70
chilometri. Per il generale Luigi Cadorna l’arretramento
tattico non esisteva. Quando finalmente
si ravvide, era ormai troppo tardi:
40.000 fra morti e feriti, 265.000 prigionieri. I
rari soldati italiani che erano sopravvissuti ai
gas asfissianti furono trucidati dagli austriacia
colpi dimazze ferrate».
Ha avuto parenti morti nella Grande guerra?
«Duezii,fratelli di mia madre, che essendo triestini dovettero arruolarsi con l’Austria e finirono dispersi
in Galizia. La seconda guerra mondiale
non fu meno luttuosa. Un mio cugino,
Livio Visintin, perì con tutto l’equipaggio del
sommergibile Scirè, che fu mandato a picco
dagli inglesi nelle acque di Haifa dopo che, al
comando del principe Junio Valerio Borghese,
aveva affondato tre navi di sua maestà britannica
nella rada di Gibilterra e messo fuori
combattimento le corazzate Queen Elizabeth
e Valiant nel porto di Alessandria d’Egitto. I
partigiani di Tito fecero irruzione nella casa di
mia zia Carlotta, portandole via la medaglia
d’oro al valor militare concessa alla memoria
del figlio. Lei impazzì per il dolore. Morì in
manicomio a Venezia. Un altro mio zio, Michele
Mengaziol, che abitava a Parenzo, venne
infoibato. Era alto1,90. Siccome durantela cattura
aveva tirato un pugno a un comunista slavo,
i titini prima di gettarlo ancora vivo nella
foiba gli tagliarono le gambe con una sega da
falegname».
Vi sono guerre giuste?
«No, gli uomini sono troppo cattivi. Mio padre
mi diceva: “Quando torni,se torni, da un assalto
all’arma bianca nella trincea avversaria, tu
sei un uomo tarato per sempre”. Lui era tornato.
Ma, anche da vecchio, ricordava ancora la
distribuzione delle boccette
di cognac e di rum, segno
che l’attacco era imminente,
e l’odio negli occhi dei soldati
quando il comandante dava
l’ordine di uscire. Chi si
rifiutava di farlo, veniva passato
per le armi all’istante.
Tutti speravano nella cosiddetta ferita intelligente,
il colpo
di mitraglia o di fucile a
una gamba, unica speranza
di sopravvivenza prima delle
baionettate reciproche
nella pancia».
Indro Montanelli diceva:
«Se nel 1915 avessi avuto
vent’anni, senza dubbio sarei
stato un interventista,
come furono mio padre e i
miei zii, i quali partirono volontari
per il Carso e ne tornarono, quelli che
tornarono, con idee del tutto diverse».
«Faccio mie le parole di due scrittori triestini, i
fratelli Giani e Carlo Stuparich, il secondo morto
suicida per non cadere vivo nelle mani degli
austriaci che avevano isolato la sua trincea sul
Cengio.
(427. Continua)
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