"Graffiti, poesie, incisioni. Sul Carso ho trovato i testamenti dei nostri soldati"

Antonio Scrimali il 4 novembre, per il 90° della Vittoria, sarà ancora sul "Golgota del fante" che perlustra da 60 anni. Nelle trincee ha catalogato 1700 messaggi. Molti scolpiti con le baionette: "Le pietre parlano per quei morti. Ma l’Italia li ha dimenticati"

"Graffiti, poesie, incisioni. 
Sul Carso ho trovato 
i testamenti dei nostri soldati"

L’hanno chiamato «il Golgota del fante». Antonio Scrimali era un bambino quando vi salì la prima volta, tenuto per mano dal padre Ernesto. «La Grande guerra era finita già da vent’anni eppure mio papà di notte si svegliava ancora di soprassalto, sentivo le urla provenire dalla camera da letto accanto alla mia, “chi va là? chi va là? dai! dai! all’assalto!”, e la mamma che cercava di calmarlo, “buono, buono, non è niente, Ernesto, è solo un incubo”. Aveva un bel dire, povera donna, ma come fai a dimenticarti un corpo a corpo all’arma bianca, a rimuovere dalla memoria l’ordine di affondare la baionetta nel ventre del nemico, il colpo più facile a darsi?».

Da allora, Antonio Scrimali non è più riuscito a smettere. Il Carso è diventato la sua ossessione. Lo ha battuto metro per metro, roccia per roccia, dolina per dolina, grotta per grotta, circa 90 chilometri in lunghezza, dai 10 ai 18 in larghezza, «e a ogni passo mi sembrava di sentir risuonare la disperata invocazione d’aiuto dei 600.000 morti del ’15-’18, ben oltre la metà dei quali sacrificatisi sull’altopiano fra Italia e Slovenia: “Ma quando? Quando vi ricorderete di noi?”».

Anche oggi, che ha 82 anni e le gambe malferme, non può staccarsi da quel paesaggio «brullo, spietatamente pietroso, espressione naturale della desolazioneche arreca all’animo una penosa malinconia, direi quasi un senso pauroso della vita terrestre che si arresta sotto i piedi degli uomini», come scrisse nel suo diario il tenente Achille Contino, ufficiale della brigata Pisa. «La sera non lo vedo rincasare e sto col cuore in gola», racconta Luciana Laurenti, sua moglie da 52 anni. «In passato a volte si tratteneva per tutta la notte e quando tornava da quell’enorme cimitero mi diceva: “Non mi lasciavano venir via...”». Ma il più delle volte lei era al suo fianco, «è stata la mia sherpa, ha portato molti zaini e ha versato molte lacrime», ne tesse lodi Scrimali.

Martedì, 4 novembre, sarà ancora una volta lassù. È il 90˚ della Vittoria, parola che in tre ore di dialogo mai una volta gli esce dalle labbra, perché le guerre non si vincono mai, si perdono sempre, insieme con le vite: «I politici invaderanno Trieste. Lascio a loro le orazioni ufficiali. Io sto con i morti. Andrò con la bandiera italiana a quota 118, sopra il monte Sei Busi. È il massimo che i miei arti acciaccati possono concedermi. Ma col cuore sarò sul Vodice, dove due battaglioni alpini, il Moncenisio e il Val Varaita, furono inghiottiti nel nulla, non ci resta più niente di loro neppure negli archivi, dissolti, come se quegli uomini non fossero mai esistiti».

Da 60 anni, con metodo scientifico, Scrimali batte il Carso palmo a palmo in cerca di queste vite perdute. Ha inventariato oltre 1.700 fra lapidi e cippi, spesso semplici graffiti incisi con la punta della baionetta o con un ferro arrugginito sulle rocce, nelle trincee, nei ricoveri, testimonianze indelebili prima di affrontare la morte. Li scolpirono i soldati delle 200 brigate italiane, soprattutto della fanteria, ma anche degli alpini, dei bersaglieri e del genio zappatori e minatori, «talpe umane, li avevano definiti, perché bisogna sotterrarsi per sopravvivere». La stessa cosa fecero i loro nemici arruolati dagli Asburgo, «austriaci, honvéd dell’esercito ungherese, cecoslovacchi, sloveni, croati, rumeni e dalmati, i più tremendi per corporatura e ferocia». Scrimali ha realizzato, senza saperlo, la profezia evangelica: «Grideranno le pietre». Che è anche l’esergo del suo ultimo libro, edito dall’ufficio storico dello Stato maggiore dell’ Esercito: «Se un giorno gli uomini taceranno, se l’ingratitudine ucciderà ogni ricordo, grideranno le pietre». Sulla mia copia ha voluto aggiungere di suo pugno questa dedica: «In ogni graffito anche coperto dal muschio c’è una scintilla d’eternità».

Di libri sulle iscrizioni ne ha già pubblicati sette, sei dei quali in collaborazione col figlio Furio. Il suo mondo si misura in quote. «Quota 77, sopra Monfalcone. Teatro di scontri all’arma bianca, al termine dei quali il comandante scrive: “Non posso descrivere le perdite”, non sapeva neppure quanti uomini erano morti, talmente erano tanti. Quota 118, Carso isontino. Era detta “terra di nessuno”. Conquistata, persa, conquistata, persa, ogni volta un’ecatombe. Quota 65, sopra cave di Selz. Fu tenuta dalla fanteria per due anni. In una nicchia si legge: “Di qua non si passa”. Poco distante, tre nomi: “Loppi A. 1886, Meneghello M. 1895, Molinari G. 1895”. Tre fanti del 17˚ reggimento brigata Acqui, gli ultimi due poco più che ventenni. I loro nomi non figurano fra i caduti al sacrario di Redipuglia. Magari si fossero salvati... Purtroppo la data incisa nel masso in numeri romani, 17aprile 1916, documenta che era l’antivigilia di un assalto alle linee nemiche finito con una strage. E tutto questo perché? Per progredire sul terreno di 15 metri. Quindici metri, capisce? Ogni volta che ci vado, sto male per tre giorni. Gli ufficiali impartivano ordini di totale insensatezza».

Fino al momento d’andare in pensione, Scrimali ha lavorato nel laboratorio chimico della Camera di commercio triestina, «un’eredità asburgica, avevo il compito di controllare gli alimenti, il caffè soprattutto». Sul Carso c’è sempre andato nel tempo libero, sacrificando anche le ferie. Ora a portare avanti la sua opera di catalogazione dei graffiti contribuisce il Gruppo ricerche e studi della Grande guerra, da lui stesso fondato all’interno della Società alpina delle Giulie, sezione del Cai di Trieste, la città dov’è nato e dove vive.
Scrimali non è un cognome di qui.
«Siciliano di Licata, Agrigento. Mio padre era geometra. Venne a Trieste e finì la carriera come direttore del Magistrato alle acque. Era nato nel 1894. Andò a combattere sul Carso. Un giorno, ridotto allo stremo dalla sete, si fece dare le borracce da 12 commilitoni, uscì dalla trincea e s’incamminò allo scoperto verso una pozzanghera per riempirle d’acqua. Un soldato austriaco fece altrettanto. “Quando fummo vicini, mi sorrise”, raccontava».
Una sospensione dell’orrore.
«Non fu l’unica. Alla Trincea delle Frasche, dove cadde il sindacalista Filippo Corridoni, si legge: “La comune pietà ebbe il sopravvento”. Il comandante italiano e quello austriaco concordarono un’ora di tregua per contare i cadaveri. Da quel 23 ottobre 1915 fu comminata la corte marziale agli ufficiali che interrompevano le ostilità per ragioni umanitarie. A parte il freddo, la fame e le malattie, il tormento peggiore era l’immobilità carsica, marcire nello spazio di due metri, nell’attesa di un cambio chenonarrivava mai. Sotto la pioggia, l’argilla rossastra del Carso formava una crosta compatta su scarponi e mollettiere, impedendo persino di sciogliere i lacci e scalzare i piedi, e s’impastava con capelli e barba incolta, fino a rendere impossibile il pettinarsi. C’era un amico napoletano di mio padre, Crucellà si chiamava, che voleva cantare a tutti i costi. Il comandante glielo vietò. “Ma se io non canto, muoio”, disse. E intonò ’O surdato nnammurato: “Oje vita, oje vita mia, oje core ’e chistu core, si’ stata ’o primmo ammore, e ’o primmo ell’ùrdemosarrajepe’me”. Dalla trincea opposta, solo 30 metri, applaudirono anche gli austriaci».
Lei ha combattuto nella seconda guerra mondiale?
«Undici mesi. Per metà credendo alle lusinghe dei partigiani sloveni, per l’altra metà con la guardia civica agli ordini del podestà, poi con Giustizia e libertà. Alla fine ero ricercato da tutti. Mi salvò il sanatorio: due anni a Sondalo».
E al ritorno ha cominciato a scavare sul Carso.
«Sì, attraversavo il posto di blocco alleato ed entravo in territorio sloveno. Per i titini era inconcepibile che un uomo andasse a cercare le memorie di altri uomini insepolti da trent’anni. Mi sottoponevano a umilianti perquisizioni corporali. Ho trovato pezzi di baionetta, calci di fucile, rasoi, forbici, gavette, tabacchiere e ossa, tante ossa, sparse nelle fosse comuni. In guerra non c’era il tempo per seppellire le salme. Ai comandanti toccava i lcompito più ripugnante: sparare il colpo di grazia ai feriti che rantolavano con la viscere di fuori o le gambe dilaniate. Il giorno dopo chi non rispondeva all’appello era considerato disperso, a meno che un altro soldato non testimoniasse d’averlo visto morire. Ho dato sepoltura a bracciate di teschi, tibie, femori. Io e la mia morosa, quella che poi sarebbe diventata mia moglie, ci vergognavamo a scambiarci le prime effusioni sul monte San Michele, ci sentivamo addosso gli occhi dimigliaia di defunti».
Perché decise di avviare queste ricerche?
«I professori insegnano la storia. Io ci sono entrato. Se non conosci il campo di battaglia, nonpuoi capire vittorie e sconfitte. Mi ha guidato la pietas. Il Comune campano di Cava de’ Tirreni è riuscito col mio aiuto a compilare l’albo d’oro di tutti i suoi cittadini immolatisi al Nord. Per anni ho indicato amadri e padri il luogo esatto dov’erano caduti i loro figli. Oggi indico a figli e nipoti il luogo esatto dove sono caduti i loro padri e nonni. Talvolta mi basta una data, il nome del reparto, un graffito. Ne ho riportati alla luce di commoventi. “Negli anni più belli i giorni più tristi”, a Casera Pramosio, Alpi carniche. “Ivi s’acqueta l’alma sbigottita”, un versetto del Petrarca inciso sopra una caverna a quota 265 a testimonianza del senso di sicurezza che i fanti provavano rifugiandosi in quella spelonca sulle alture del Nad Logem, insanguinate da spaventose carneficine durante l’ottava e la nona battaglia dell’Isonzo».
Ha fatto tutto da solo?
«All’inizio sì. Poi con l’aiuto di tanti giovani volontari ho sistemato trincee, tolto la vegetazione dalle lapidi, riaperto le caverne, ripulito e reso sicuri i sentieri, ritrovato luoghi della memoria come il “valloncello dell’albero isolato” della poesia San Martino del Carso di Giuseppe Ungaretti, che lì combatté nell’agosto del ’16: “Di queste case / non è rimasto / che qualche / brandello di muro./Di tanti / chemi corrispondevano / non è rimasto / neppure tanto. /Ma nel cuore / nessuna croce manca. / È il mio cuore / il paese più straziato”. Oggi trovo migliaia di escursionisti che vagano fra le doline senza sapere nemmeno loro il motivo. Perché siete venuti qui?,domando.“Dovevamo”, mi rispondono. Spesso accompagno le scolaresche. Alla fine le maestre chiedono quanto mi devono per il disturbo. Non voglio niente, neppure un euro: mandatemi solo i temi svolti in classe dai vostri alunni».
Secondo lei perché quei soldati sentirono il bisogno di incidere parole nella pietra? Pensavano che un giorno sarebbe arrivato uno Scrimali a leggerle?
«Per non essere dimenticati. Noi italiani dimentichiamo facilmente, a cominciare dal fatto che abbiamo contratto un debito enorme con un’intera generazione mandata al macello, sacrificatasi per obbedire a ordini inconcepibili, spesso per conquistare 30 metri in più di reticolato».
A quali ordini si riferisce?
«Pensi alla disfatta di Caporetto. Non crederà mica che sia stata colpa della truppa? Nessun comandante di buon senso avrebbe dovuto tenere le posizioni sulla sinistra orografica dell’Isonzo. Hamai visto il Merzli, non a caso passato alla storia come “il monte dell’assurdo”? Potevi scalarlo soltanto con le corde. Ma l’ordine era: dove s’è conquistato un metro col sangue dei fanti, non si molla. In Francia i tedeschi facevano ritirate strategiche anche di 70 chilometri. Per il generale Luigi Cadorna l’arretramento tattico non esisteva. Quando finalmente si ravvide, era ormai troppo tardi: 40.000 fra morti e feriti, 265.000 prigionieri. I rari soldati italiani che erano sopravvissuti ai gas asfissianti furono trucidati dagli austriacia colpi dimazze ferrate».
Ha avuto parenti morti nella Grande guerra?
«Duezii,fratelli di mia madre, che essendo triestini dovettero arruolarsi con l’Austria e finirono dispersi in Galizia. La seconda guerra mondiale non fu meno luttuosa. Un mio cugino, Livio Visintin, perì con tutto l’equipaggio del sommergibile Scirè, che fu mandato a picco dagli inglesi nelle acque di Haifa dopo che, al comando del principe Junio Valerio Borghese, aveva affondato tre navi di sua maestà britannica nella rada di Gibilterra e messo fuori combattimento le corazzate Queen Elizabeth e Valiant nel porto di Alessandria d’Egitto. I partigiani di Tito fecero irruzione nella casa di mia zia Carlotta, portandole via la medaglia d’oro al valor militare concessa alla memoria del figlio. Lei impazzì per il dolore. Morì in manicomio a Venezia. Un altro mio zio, Michele Mengaziol, che abitava a Parenzo, venne infoibato. Era alto1,90. Siccome durantela cattura aveva tirato un pugno a un comunista slavo, i titini prima di gettarlo ancora vivo nella foiba gli tagliarono le gambe con una sega da falegname».
Vi sono guerre giuste?
«No, gli uomini sono troppo cattivi. Mio padre mi diceva: “Quando torni,se torni, da un assalto all’arma bianca nella trincea avversaria, tu sei un uomo tarato per sempre”. Lui era tornato. Ma, anche da vecchio, ricordava ancora la distribuzione delle boccette di cognac e di rum, segno che l’attacco era imminente, e l’odio negli occhi dei soldati quando il comandante dava l’ordine di uscire. Chi si rifiutava di farlo, veniva passato per le armi all’istante. Tutti speravano nella cosiddetta ferita intelligente, il colpo di mitraglia o di fucile a una gamba, unica speranza di sopravvivenza prima delle baionettate reciproche nella pancia».
Indro Montanelli diceva: «Se nel 1915 avessi avuto vent’anni, senza dubbio sarei stato un interventista, come furono mio padre e i miei zii, i quali partirono volontari per il Carso e ne tornarono, quelli che tornarono, con idee del tutto diverse».
«Faccio mie le parole di due scrittori triestini, i fratelli Giani e Carlo Stuparich, il secondo morto suicida per non cadere vivo nelle mani degli austriaci che avevano isolato la sua trincea sul Cengio.

Anche loro si arruolarono pieni di ideali per poi scoprire che la realtà era un’altra. Eppure fecero ugualmente il loro dovere. Roma è Roma,ma qui è Italia». Come si mantiene la pace? «Non siamo ancora pronti».
(427. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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