Grande festa per gli All Blacks Ma San Siro meritava di più

MilanoPartiamo dalla fine. Per capire che cosa ci abbia lasciato questa sfida con gli All Blacks bisogna partire dagli ultimi interminabili cinque minuti, giocati tutti in pochi metri quadrati, a un passo da quella linea di meta rimasta miraggio invalicabile per l’ultimo disperato assalto azzurro. Cinque minuti in cui spingeva vanamente il pacchetto italiano, ma spingevano anche gli ottantamila di San Siro che speravano di andarsene con un ricordo un po’ più concreto, un po’ più bello.
E invece il muro dei Blacks e l’insensibilità dell’arbitro australiano Dickinson ci strozzavano in gola l’urlo liberatorio. Quello che avrebbe accompagnato una meta più che meritata, che non avrebbe cambiato la sostanza del risultato - sempre sconfitta onorevole sarebbe stata - ma che almeno avrebbe reso un po’ meno freddo e meno grigio il pomeriggio del popolo ovale. Durante questi cinque minuti di assalto disperato, invece, la mischia crolla ripetutamente, l’arbitro fischia altre quattro punizioni e caccia dal campo il pilone neozelandese Tialata, ma stranamente non concede la meta tecnica che forse tante ostruzioni consecutive avrebbero meritato. Le mischie diventano una decina, i neri si mettono di traverso, in tutti i sensi, e l’arbitro dopo cinque minuti passati sullo stesso punto del campo fischia la fine.
Morale: 20-6 per gli All Blacks, l’Italia esce dal campo a testa alta - e contro questa gente non è mai una cosa facile -, qualcuno come al solito se la prende con l’arbitro, come se non avessimo perso ugualmente, ma almeno gli azzurri sono restati in partita fino in fondo, hanno evitato disfatte paurose (tipo Roma 2004, Genova 2000, Bologna ’95, per citare le ultime volte che i neozelandesi erano venuti a trovarci), hanno raccolto il secondo miglior risultato della storia contro i neozelandesi (dopo il 18-12 di Rovigo ’79) e proprio su questo dato va incentrata l’analisi della partita di San Siro.
Di certo non abbiamo visto un grande rugby, il vero spettacolo è stato più in tribuna che sul campo: vedere ottantamila persone a una partita di rugby è un fatto epocale che da solo può dare un senso a questa sfida. Andare a San Siro e non incontrare nemmeno un carabiniere o un poliziotto in tenuta antisommossa è una cosa da marziani. Eppure il rugby italiano è riuscito in questo piccolo miracolo. E la nazionale ovale scatena l’invidia di quella di Lippi uscendo ancora tra gli applausi nonostante la dodicesima sconfitta consecutiva, 18 nelle ultime 20 partite. In qualsiasi altro sport saremmo allo psicodramma, al lancio dei cuscinetti e dei seggiolini.
Mistero della fede per questa gente che più perde, più trova la forza e la voglia di andare a vedere questa squadra. Gente che meritava di più, ma non tanto dagli azzurri che hanno giocato la loro onesta partita, che sapevano che la loro missione era quella di limitare i danni e l’hanno fatto nel migliore dei modi, subendo una sola meta, per la prima volta nella storia dei confronti con i neozelandesi, quando in passato si tornava a casa con otto, dieci, persino quattordici legnate sulla schiena come in quel terribile 101-3 dei mondiali del ’99. Non solo, ma probabilmente nella storia ormai trentennale dei confronti con la leggenda del rugby, mai ci siamo trovati così vicini a loro, soprattutto nel gioco espresso. E, a parte la pantomima finale, ci resta l’amaro in bocca per quella palla sfuggita al nostro mediano d’apertura Gower alla fine del primo tempo nella loro area dei ventidue, una palla che avrebbe potuto cambiare l’inerzia di questa partita.
Il popolo di San Siro, piuttosto, meritava qualcosa di più proprio da parte degli All Blacks, perché quelli visti in campo ieri erano i fratellini pallidi di Kirwan, Fitzpatrick, Rokocoko o Jonah Lomu. Le azioni alla mano si sono contate sulle dita, alla fine la differenza l’hanno fatta i calci di Luke McAlister pronto a punire i nostri sistematici fuorigioco e le nostre scorrettezze. Per il resto la meta del tallonatore Flynn è stata un lampo improvviso in una partita quasi interamente presa a calci.

D’altra parte, senza Carter, senza McCaw, senza Muliaina, senza tutti gli altri lasciati a riposo in vista di Twickenham, anche il ct dei tutti neri Graham Henry si è trovato ad avere in mano una pattuglia un po’ modesta. Sotto la haka quasi niente.

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