Gros: «La ricetta per guarire? Meno spese e salari bassi»

L’economista: «Il vostro Paese perde produttività: occorrono gli stessi sacrifici che la Germania ha fatto per sei anni»

Rodolfo Parietti

da Milano

Le regole del Patto di stabilità non possono essere considerate un alibi, nè responsabilità vanno attribuite alla conduzione della politica monetaria da parte della Bce: se i conti pubblici dell’Italia non tornano, al pari di quelli di Germania e Francia, le cause vanno ricercate altrove, a cominciare dalle mancate riforme strutturali tese a contrastare l’invecchiamento delle popolazione e dal declino della produttività. E se in generale l’Europa deve saper accettare «salari più bassi», l’Italia ha l’obbligo di non impantanarsi in uno stillicidio di manovrine finanziarie: meglio sarebbe uno sforzo concentrato su due-tre anni, in modo da gettare le basi per un forte risanamento della finanza pubblica. L’economista Daniel Gros, direttore del Centre for European Policy Studies di Bruxelles, ne è convinto: l’Italia non rischia il collasso, ma un semplice colpo di reni non basterà a risolvere una situazione comunque seria.
Dottor Gros, la Commissione Ue ha avviato la procedura per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia. Esiste una ricetta per riportare in ordine i conti?
«L’Italia soffre dello stesso male di Germania e Francia: quando la situazione congiunturale era favorevole, occorreva impostare politiche anticicliche. Ma questo non è stato fatto, così oggi dovete fronteggiare problemi di natura strutturale, alla base della bassa crescita economica».
Per esempio?
«C’è un grosso nodo demografico irrisolto, da cui deriva la crescente spesa sociale che a sua volta impatta con il disavanzo. Inoltre, il problema dell’invecchiamento della popolazione si somma con un altro aspetto di criticità tipico di molti Paesi europei».
Quale?
«La produttività, che fino ai primi anni ’90 aumentava al ritmo del 2% annuo, e che ora è in calo».
Perché si è verificata questa flessione?
«Probabilmente a causa di due fenomeni che si sono sovrapposti dopo che nel 2000 - e suona come un paradosso - a Lisbona l’Ue aveva varato un programma di riforme destinate a rendere più competitiva l’Europa: da un lato, un aumento dell’occupazione; dall’altro minori investimenti da parte delle imprese».
Quali sono i rischi derivanti da una minore produttività?
«Se la produttività non cresce, occorre moderazione salariale. In caso contrario, le ripercussioni sull’inflazione sono pressochè inevitabili. Dirò di più: se i lavoratori intendono mantenere alcune garanzie, devono anche accettare la possibilità di avere salari più bassi».
Un discorso che riguarda anche l’Italia?
«Certo. L’Italia perde produttività, è debole nel settore hi tech, la competitività scende di 1-2 punti l’anno e il debito pubblico non è di facile gestione: sono problemi che si risolvono solo con sacrifici. La Germania ci ha messo sei anni, puntando sulla moderazione salariale e sui risparmi di spesa. L’Italia dovrà mettere in campo anche alcune manovre finanziarie importanti, perché questa è una crisi strisciante, più pericolosa di quella del ’95».
C’è chi attribuisce la bassa crescita economica al Patto di stabilità e alla Bce...
«Il Patto non c’entra, visto che non abbiamo avuto una recessione repentina.

Semmai, la sua riforma ha incrinato la fiducia dei cittadini e, in parte, posto le basi alla disfatta dei referendum francese e olandese. Quanto alla Bce, le accuse per non aver tagliato i tassi sono assurde: piuttosto, Eurolandia soffre di un eccesso di liquidità. Il problema è il tasso di cambio, ma la Bce non può farci niente».

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