Ci risiamo. A ogni caduto il vecchio ritornello. Quello abusato del «cè un morto, corriamo via». Chi ogni volta approfitta di un cadavere dilaniato per trasformare il dolore in opportunità politica dovrebbe chiedersi se nelle proprie dichiarazioni ci sia più cinismo o più compassione. Noi gli chiediamo soltanto se gli sia mai passato per la testa di ritirare i carabinieri dalla Sicilia dopo lassassinio di Carlo Alberto Dalla Chiesa o di chiudere i tribunali dopo quello di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Il no sarà anche ovvio, ma è la chiave per capire quanto la lotta ai talebani somigli a quella alla mafia. La chiamiamo guerra, ma è una sfida più ampia e complessa che non potrà mai venir conclusa dal semplice conteggio delle posizioni conquistate, dei nemici uccisi e dei territori annessi. Al pari del conflitto con la «cupola» non sarà chiusa da un trattato di pace perché non è uno scontro tra eserciti rivali, ma tra visioni del mondo. Uno scontro da vincere offrendo alternative sociali, politiche ed economiche. La contrapposizione non può però avvenire al di fuori dei confini dellAfghanistan. E non poteva, un tempo, svolgersi al di fuori della Sicilia. Dopo gli affondi della mafia la prima preoccupazione della politica è sempre stata quella di garantire la sicurezza di magistrati, poliziotti e funzionari statali. Una di quelle fasi fu infatti scandita dalla presenza dellesercito e dalla missione dei «vespri siciliani». Se alla mafia fosse stato permesso di continuare a uccidere sarebbe stato impossibile contrastare limposizione del pizzo e diffondere lidea di una vera presenza statuale.
In Afghanistan si combatte la stessa partita. La guerra vera è già stata vinta nel 2001. Allora i talebani gettarono le armi e si nascosero. Da allora vivono e colpiscono nellombra, impongono il pizzo, le proprie leggi e le proprie ritorsioni soltanto nelle zone dove mancano lesercito afghano e i suoi alleati occidentali. La zona di Bala Murghab, cui si avvicinava il convoglio colpito ieri, è una tipica prima linea di questa guerra. Lì fino allarrivo della Nato i clan degli insorti si finanziavano con i traffici di droga e armi verso il Turkmenistan. Oggi questo controllo è molto meno netto e nei villaggi gli anziani possono permettersi di chiedere ai talebani il ritiro dai centri abitati. Ma se a ritirarci fossimo noi, la mafia talebana tornerebbe ad avere il sopravvento. Sarebbe, insomma, come ordinare alle forze dellordine labbandono della Sicilia.
Anche i 24 morti italiani di questo conflitto ricordano molto di più il bilancio di unoperazione di polizia che non quello di una guerra come il Vietnam dove soltanto 40 anni fa lAmerica registrava centinaia di morti in una singola giornata di combattimenti.
La sfida afghana ci porta dunque, anche sul terreno dei bilanci, alla dimensione della guerra alle cosche. E come nel caso della guerra a «Cosa Nostra» è difficile prevederne la fine. La guerra alla mafia si combatterà fino a quando giudici e poliziotti non saranno più minacciati, finché i cittadini pagheranno solo le tasse e non il pizzo, fino a quando non esisteranno due leggi in contrapposizione, ma soltanto quella dello Stato.
Per lAfghanistan vale la stessa regola. Le nostre truppe dovranno restarci fino a quando lesercito afghano non sarà in grado di impedire la presenza dei talebani, fino a quando le scuole non verranno più bruciate e le studentesse sfregiate con lacido, fino a quando tutti gli afghani obbediranno alle leggi di Kabul e non alle intimidazioni degli insorti.
Quanto ci vorrà? Dipenderà dalla nostra determinazione nellaffermare il diritto di quel popolo a vivere non secondo il capriccio degli integralisti, ma secondo le regole politiche, economiche e sociali di cui ci diciamo portatori. Ci vorrà forse qualcosa in più dei due o tre anni promessi dalla Nato, ma soltanto fermezza, decisione e compostezza ci consentiranno di vincere.
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