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Tra Hamas e Fatah accordo a tempo scaduto

Il governo spera così di ottenere una rappresaglia simbolica da parte di Olmert per il soldato rapito

Gian Micalessin

Ad esser buoni è una conversione in punto di morte. Ad esser cattivi una mossa furbetta per salvare il salvabile e mettersi al riparo dall’imminente rappresaglia israeliana. Sia quel che sia l’accordo tanto a lungo implorato, negoziato, rimandato adesso c’è. Stringendo i denti, turandosi il naso e guardando dall’altra parte il premier di Hamas Ismail Haniyeh s’è bevuto anche il progetto politico stilato dai detenuti palestinesi per l’implicito riconoscimento d’Israele.
«Gli ostacoli sono stati superati, abbiamo raggiunto un accordo su tutti i punti del documento dei prigionieri», ha dichiarato ieri Rawhi Fattuh, un consigliere del presidente Abu Mazen reduce dall’incontro di ieri pomeriggio a Gaza tra una delegazione di Fatah e una delegazione fondamentalista. Cosa abbia permesso l’intesa per evitare il referendum sul “piano dei prigionieri” già fissato per il 26 luglio ancora non si sa. Una cosa però è certa. Quell’accordo raggiunto mentre i carri armati bussano alle porte di Gaza e i comandi israeliani minacciano di eliminare tutti i capi di Hamas suona perlomeno sospetto. A render meno chiaro il tutto contribuiscono le dichiarazioni degli esponenti di Hamas che confermano l’intesa, ma negano l’implicito riconoscimento d’Israele. «Il documento contiene una clausola che ribadisce la non riconoscibilità dell’occupante», spiega il portavoce fondamentalista Abu Zuhri. Per il parlamentare Salah al Bardaweel l’intesa non riconosce l’esistenza di due Stati, ma solo la possibilità di far nascere uno Stato palestinese sui confini del 1967.
Il piano in 18 punti firmato l’11 maggio scorso nel carcere di Hadarim dal segretario generale di Fatah Marwan Barghouti e da Abdel Khaled Natche, detenuto eccellentissimo di Hamas, è diventato il simbolo della discordia tra Abu Mazen e Ismail Haniyeh. In quei 18 punti apprezzati da Fatah e accettati inizialmente anche da Hamas, capi e comandanti reclusi a Hadarim concordavano nel sottoscrivere la soluzione dei due Stati accettando implicitamente di riconoscere lo Stato d’Israele. Abu Mazen ne aveva chiesto immediatamente la sottoscrizione all’esecutivo fondamentalista e dopo aver ricevuto un secco rifiuto lo aveva sottoposto al voto popolare fissando il referendum del 26 luglio.
Per Haniyeh la mossa era un vero colpo basso. Quel referendum rischiava di costringerlo alle dimissioni se la maggioranza dei palestinesi avesse votato, come prevedevano i sondaggi, per la ratifica del piano in 18 punti. Ora il colpo basso potrebbe essersi trasformato in una mano tesa. In fondo Haniyeh i colpi più duri li ha ricevuti dall’ala militare e dalla dirigenza in esilio del suo stesso partito. Delegittimato pubblicamente dall’assalto all’avamposto di Kerem Shalom subito dopo la firma di un accordo in cui s’impegnava con il presidente palestinese a metter fine a tutti gli attacchi sul suolo israeliano, Ismail Haniyeh si ritrova con il cerino in mano. Non ha più l’autorità sufficiente per ottenere il rilascio del caporale detenuto dai comandanti delle Brigate Ezzedin Al Qassam, non può negoziare con Israele e non ha neppure la possibilità di abbandonare la vita pubblica per darsi ad una serena latitanza.
In questa situazione disperata anche quell’accordo tante volte rifiutato può diventare un salvagente. Soprattutto se Haniyeh riuscirà ad inserirlo in un pacchetto più ampio per ottenere da Israele una rappresaglia simbolica e limitata in cambio della restituzione dell’ostaggio. Il problema è ovviamente la scarsa autorevolezza di un’intesa firmato da un presidente ed un premier considerati irrilevanti non solo dal nemico, ma anche dai propri sottoposti e alleati. «Meglio aspettare e vedere cosa succederà», suggeriva ieri il portavoce della Casa Bianca Tony Snow. Dal punto di vista israeliano quell’accordo è invece già superato dai fatti.

«La politica interna palestinese a volte può anche essere interessante - faceva notare ieri il portavoce del ministero degli Esteri Mark Regev - ma diventa assolutamente irrilevante se è in corso una crisi e un nostro soldato è tenuto in ostaggio a Gaza».

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