«Ho ancora i proiettili nelle gambe Non do la mano ai brigatisti rossi»

Il democristiano torinese abitante in corso Unione Sovietica cadde, quasi per una nemesi storica, sotto i colpi della Nagant calibro 7,62 che era in dotazione all’esercito dello zar, fabbricata in Urss e in Cecoslovacchia fino alla seconda guerra mondiale. Di sicuro i brigatisti rossi non l’avevano ereditata dalla scorta di Nicola II. Era il 13 luglio 1977. Con quella pistola, ad aprile gli stessi terroristi avevano ammazzato Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati. Con la medesima arma, a novembre avrebbero assassinato Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa. Contro Maurizio Puddu, consigliere provinciale, esplosero 16 colpi. Sette andarono a segno. Uno è ancora nella gamba destra e ci rimarrà per sempre, appena sopra il ginocchio, accanto a una lamina metallica fissata da 18 viti che tiene insieme i resti del femore.
Sono passati 30 anni, ma Puddu, che un mese fa ne ha compiuti 75, non dimentica. Non può dimenticare, neppure se lo volesse: ogni mattina, per entrare nella sede dell’Associazione italiana vittime del terrorismo di cui è fondatore e presidente, deve salire uno scalino di 27 centimetri, quasi il doppio dei gradini normali. «Da allora mi manca l’appoggio, credo d’aver superato l’ostacolo e invece il piede è ancora a metà. Sapesse quante volte sono ruzzolato per terra, spaccandomi la faccia».
Quel giorno, mentre boccheggiava sull’asfalto con l’arteria femorale recisa, la portinaia dello stabile tentò d’avvicinarsi per tamponargli le ferite. Un brigatista la dissuase sparandole due colpi fra i piedi. «All’ospedale il medico di guardia sentenziò: “Pressione a 50, è spacciato”. Invece una delle pallottole s’era infilata dentro l’arteria e fungeva da tappo. Un miracolo. Piero Coggiola, dirigente della Lancia di Chivasso, per una ferita analoga morì dissanguato».
La moglie di Puddu, Nives, il giorno dell’attentato si trovava a Roma col figlio Massimo. Nel 1977 le notizie non arrivavano sui treni in viaggio. Quando giunse alla stazione di Porta Nuova e vide che ad attenderla al binario c’era l’altro figlio, Andrea, insieme con i cronisti Francesco Bullo della Stampa e Giuseppe Sangiorgio della Gazzetta del Popolo, attorniati da un nugolo di fotoreporter, urlò: «Me l’hanno ammazzato!». Nel tragitto verso l’ospedale Mauriziano tentarono invano di tranquillizzarla. Solo quando le fecero infilare il corridoio che portava alla rianimazione, anziché all’obitorio, si convinse che c’era ancora speranza. Il terribile spavento le fece cessare per sempre il ciclo mestruale. Il conseguente disequilibrio ormonale le provocò una gravissima osteoporosi. Nell’anca destra dovettero impiantarle due protesi, un’altra nell’anca sinistra, due nelle dita. A salvargli le mani fu il professor Renzo Mantero, primario a Savona. «Rifiutò l’onorario: “Lei ha già dato”», si commuove Puddu.
A decidere di gambizzare «questo individuo della cricca dc», come annunciava il comunicato di rivendicazione, fu lo stato maggiore composto dai brigatisti che un mese prima avevano azzoppato Indro Montanelli (Lauro Azzolini e Franco Bonisoli) e che l’anno dopo avrebbero rapito e ucciso Aldo Moro (Mario Moretti, Prospero Gallinari, Valerio Morucci). Il sinedrio comprendeva Patrizio Peci, che sarebbe diventato il primo pentito nella storia del partito armato, e la sua compagna Nadia Ponti, in seguito accusata dallo stesso Peci di sei omicidi nella sola Torino (oltre a Croce e a Casalegno, i poliziotti Rosario Berardi, Salvatore Lanza, Salvatore Porceddu e la guardia carceraria Lorenzo Cotugno). «La Ponti faceva parte del commando di tre persone che mi ferì. Le hanno inflitto cinque ergastoli, ma da parecchio tempo è a casa sua, agli arresti domiciliari. In carcere ha sposato un brigatista. Gli altri due sicari erano Lorenzo Betassa e Dante Di Blasi, operai della Fiat. Furono tutti condannati a quattro anni. Betassa non li ha mai scontati, perché nel 1980 fu ucciso durante l’irruzione dei carabinieri nel covo di via Fracchia a Genova. Una sorella della Ponti, dirigente al Comune di Torino, dove lavoravo anch’io, venne a scusarsi. Avresti fatto meglio a non dirmi di questa parentela, le risposi».
La Provincia che servì fino all’effusione del sangue ha messo a disposizione di Puddu una polverosa stanzetta di 20 metri quadrati, ingombra di carte, dove il presidente dell’Associazione vittime del terrorismo aggiorna la contabilità del dolore e continua a inseguire i colpevoli con la perseveranza di un Simon Wiesenthal. Il martirologio degli anni di piombo comprende 142 morti e 59 gambizzati. Nell’elenco non figurano i lutti più recenti: Massimo D’Antona, Marco Biagi, Emanuele Petri. Includendo le stragi dal 1969 al 1989, si arriva a 5.000 attentati, con 455 caduti e 4.529 feriti.
In questo bugigattolo è giunta a Puddu la notizia che l’azzoppacristiani Di Blasi, nome di battaglia Leo, sardo come lui, a 56 anni fa il campanaro vicino a Orgosolo e vorrebbe tanto «stringergli la mano e guardarlo in faccia per la prima volta».
Le sparò senza guardarla?
«Per lui non ero nemmeno una persona, come ha dichiarato all’Unione Sarda: “Puddu non mi rappresentava nulla al di fuori del bersaglio da colpire. Mi avessero detto di ammazzarlo, l’avrei ammazzato, ma avevo l’ordine di gambizzarlo. Dovevamo servirlo in mattinata. Poi, per ragioni che ora mi sfuggono, fu rinviato al pomeriggio”. Servirlo, ha capito?».
Il lessico non è cambiato.
«Mi ha telefonato un giornalista del quotidiano di Cagliari. Voleva organizzare la stretta di mano. “Cosa si prova mentre si spara a un uomo?”, ha chiesto il cronista a questo Di Blasi. E lui: “Niente, io non provavo assolutamente niente. Nessuna emozione e neanche pietà. Non lo conoscevo ma mi avevano detto che era un amico da abbattere: per me bastava questo. Avrei sparato contro chiunque: era l’organizzazione a decidere i bersagli. Io ero un esecutore”. Ma si può?».
Non gli stringerà la mano.
«No. Mai. La misericordia è di Dio, la giustizia è dello Stato, il perdono è degli uomini».
E lei non l’ha perdonato.
«Non voglio parlarne. Il perdono è un fatto intimo che non va esternato. Io sono tenuto a un solo obbligo: il rispetto dei morti. Ogni tanto i magistrati mi chiamano per chiedermi un parere sulle scarcerazioni dei detenuti. Non capisco perché. Tanto, nonostante la mia opposizione, li liberano lo stesso».
Perché i brigatisti scelsero proprio lei?
«Non l’ho mai capito. Mi diedero del servo delle multinazionali. Proprio a me, che non ho mai bevuto una Coca-Cola. Dissero che cercavo il dialogo fra Dc e Pci, mi definirono “berlingueriano”. Io manco m’ero accorto che il mio partito dialogava con i comunisti, pensi un po’ che ingenuo. Lo venni a sapere dal loro volantino. Mia moglie, al telefono da Roma, m’aveva messo in guardia: “Hanno ferito Antonio Sibilla, segretario ligure della Dc. Sta’ attento, qui sparano a tutti”. E io che c’entro?, obiettai».
Come andò?
«Tornavo a casa alle 14.30. Appena parcheggiata la mia 124, vedo questi tre. Li credevo piazzisti. Uno s’avvicina, era Betassa, estrae qualcosa dalla borsa. Non capisco che è una pistola e non sento alcun rumore: aveva messo il silenziatore. Avverto una fitta lancinante al ginocchio. Tento di ripararmi fra due auto. La gamba cede e sbatto con la faccia contro la carrozzeria incandescente di una Volkswagen parcheggiata al sole. La pelle cuoceva sulla lamiera. Mi spara un secondo colpo, che viene deviato dal portafoglio nella tasca posteriore dei pantaloni. Sopraggiunge un complice, era Di Blasi, e mi colpisce più volte con la sua Nagant. “Per favore, basta”, lo imploro, ma il tamburo del revolver continua a girare. Scappano. Un dentista, chiamato dalla portinaia, tenta di fermare l’emorragia con un laccio e una borsa ghiacciata. Per fortuna l’ospedale era a soli 300 metri. Ma i chirurghi non disponevano di un bypass per l’aorta femorale. Lo portò da Milano, correndo come un disperato, un carabiniere motociclista, che scoppiò a piangere quando gli annunciarono che non serviva più».
Credeva che lei fosse morto.
«Sì. Invece il professor Aschieri nel frattempo era riuscito a creare un bypass prelevandomi dall’altra gamba cinque centimetri di vena safena e innestandomela sull’arteria femorale troncata dal proiettile».
Oltre a essere claudicante, ha altri disturbi?
«L’osso sacro s’è deformato. L’impossibilità di fare esercizio fisico mi ha provocato obesità, duodenite e alterazione della frequenza cardiaca».
Ripercussioni psicologiche?
«La sensazione d’essere sempre pedinato da qualcuno. Lo scoppio di un petardo mi fa salire il cuore in gola. Per me la notte di San Silvestro, con tutti quei mortaretti, è un anticipo d’inferno».
Lo Stato le versa una pensione?
«No. Dopo 13 anni mi ha riconosciuto un’invalidità del 55% e un risarcimento di 80 milioni di lire. Ho dovuto sottopormi a 40 radiografie. All’ultimo di cinque ricoveri, presso l’ospedale militare del Celio a Roma, la commissione medica era presieduta da un ammiraglio della Marina che s’è indignato: “Non bastavano i proiettili nelle gambe? Anche radioattivo a furia di schermografie, dovevate farlo diventare”».
L’invalidità non le dà diritto a un assegno mensile?
«Il vitalizio di 1.500 euro, non reversibile, è arrivato soltanto due anni fa, dopo una battaglia condotta dalla nostra associazione. Ma chi ha un’invalidità inferiore al 25% non lo percepisce. E il ministero del Tesoro respinge gli ordini di pagamento dei nuovi vitalizi, decisi dal ministero dell’Interno, con la giustificazione che il capitolo di spesa è vuoto. Insomma, per noi vittime i soldi non ci sono mai».
Ha più ricevuto minacce?
«Per anni, fino al 1997. Telefonate anonime notturne: “Sei stato colpito una volta, la prossima mireremo alla testa”. Ma gli investigatori sostenevano che non era nelle abitudini delle Br fare così, che i terroristi non si ripetono. Come Paganini».
Dunque, chi poteva essere?
«Nel 1987 fui nominato revisore dei conti dell’ospedale Maria Vittoria dell’Asl 3. Scoprii che la spesa per la sopraelevazione di un edificio era stata gonfiata. L’appalto, oltre un miliardo di lire, fu tolto alle cooperative rosse di Reggio Emilia e affidato a un impresario edile di Torino. Ricevetti parecchie intimidazioni. Di lì a poco il costruttore fu rapito. Non è più tornato a casa».
Quanti sono i terroristi che scontano una pena in carcere per i loro delitti?
«Un’ottantina, credo. Meno dei latitanti, almeno un centinaio, rifugiati quasi tutti in Francia, che non vi sono mai entrati».
E quanti sono all’ergastolo?
«Li hanno fatti uscire tutti. La prigione è solo una zona transiti. Vanno a lavorare fuori, dormono a casa. I 18 giorni di permesso annuale gli vengono addirittura scalati dalla pena».
Hanno scarcerato anche quelli che non si sono ravveduti?
«Altroché. Renato Curcio non s’è né pentito né dissociato».
Però non ha mai ucciso.
«Uno condannato per concorso in omicidio, lei come lo chiama? Io lo chiamo assassino. Curcio fu il mandante dei primi due delitti delle Brigate rosse. Il 17 giugno 1974, nella sede del Msi a Padova, per colpa sua furono uccisi i militanti di destra Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, che lasciarono due vedove e cinque figli orfani. Questa è sentenza dello Stato, passata in giudicato».
Chi è il peggiore di tutti?
«Per la loro falsità disprezzo Valerio Morucci e Adriana Faranda, gli aguzzini di Moro che furono ricevuti dal presidente Cossiga. La Faranda, in particolare, disse che voleva riparare al male compiuto devolvendo alle famiglie delle vittime il ricavato della vendita di un appartamento che stava per ereditare. Una duplice menzogna, giacché, avendo perso i diritti civili, non poteva accedere all’eredità, e in ogni caso la legge dispone che in primis il condannato debba risarcire lo Stato. Un modo per fare bella figura a nostre spese sui giornali. Le obiettai: perché non regala l’alloggio a un’associazione che assiste i disabili? Mai avuta risposta».
Che cosa pensa del fatto che questi signori vengano di continuo intervistati dai giornali, ospitati nei salotti televisivi, invitati a tenere conferenze nelle scuole?
«Sono inorridito. Oreste Scalzone e Toni Negri da Parigi predicano ancora, stavolta dal video, la liceità della lotta armata. A Milano nel 2002 ha preso il via un cantiere, coordinato da Curcio con la partecipazione di lavoratori di varie aziende, sui “dispositivi relazionali totalizzanti all’opera nelle grandi catene della distribuzione commerciale e sulle risposte di sopravvivenza a tali dispositivi”. L’anno dopo questo cantiere ha riaperto i lavori per “affrontare il nodo del dominio aziendale attraverso la flessibilità, con i malesseri che esso genera”. Sembra di leggere i loro comunicati di trent’anni fa, il linguaggio è lo stesso».
Sergio D’Elia, ex dirigente di Prima linea, è stato eletto in Parlamento. L’Unione lo ha nominato segretario della Camera.
«Se Fausto Bertinotti mi ricevesse a Montecitorio e incrociassi nei corridoi D’Elia, me ne andrei subito, questo è poco ma sicuro. Badi bene, io non contesto agli ex terroristi il diritto a rifarsi una vita dopo aver saldato il debito con la giustizia, bensì la loro spudoratezza nel pretendere di ricoprire ruoli pubblici, incuranti dell’immenso dolore che hanno seminato. C’è un solo modo per chiudere questa terribile pagina di storia: riconoscano, una volta per tutte, d’aver sbagliato senza attenuanti. E la smettano con le distinzioni cavillose fra reati di sangue e reati politici».
Li mette sullo stesso piano?
«Certo. Ho avuto colleghi d’ufficio che anni dopo sono venuti a chiedermi scusa perché erano stati telegrafisti di Prima linea. Bravi! A una conferenza che ho tenuto a Vercelli, alcuni pensionati in sala hanno ammesso: “È vero, alla Fiat Rivalta i brigatisti rossi stavano con noi alla catena di montaggio”. E voi che cosa facevate mentre quelli sparavano e ammazzavano? Niente. Allora siete complici».
Perché entrò nella Dc?
«Sono cresciuto all’oratorio. Servivo la messa a don Costantino Marengo, un antifascista coraggiosissimo, che nel 1945 per salvare la vita a un repubblichino, certo Viarengo, catturato dai partigiani, non esitò a irrompere nella caserma di via Bologna, pistola in pugno, intimando: “Quell’uomo è mio. Consegnatemelo!”. Io ero tredicenne e avevo già la tessera del partito, firmata da Alcide De Gasperi».
Flaminio Piccoli mi confessò che Curcio, prima di fondare le Br, lavorò per la Dc a Trento.
«Di Piccoli non ho mai avuto simpatia. Ero fanfaniano».
Piccoli gli fece persino avere attraverso suor Teresilla Barillà 20 milioni di lire, frutto di una tangente pagata a Enrico Pancheri, presidente dell’Autobrennero.
«L’ho conosciuta suor Teresilla. Secondo me aveva tutte le stimmate tranne quelle della religiosa. Volle incontrarmi in un caffè di Roma, zona piazza Venezia. Mi faceva strane domande sull’associazione, insisteva perché intervenissi in favore dei terroristi detenuti. Ebbi l’impressione che lavorasse per i servizi segreti».
Ad Hammamet, un anno prima di morire, Craxi mi rivelò che il presidente Leone era pronto a firmare la grazia per Paola Besuschio, la compagna detenuta che le Br volevano scambiare con Moro, ma un leader dc di lungo corso, anzi lunghissimo, all’ultimo minuto pose il veto. La circostanza trova conferma nei diari di Fanfani. Ed è lo stesso nome che mi aveva fatto anche Piccoli.
«Se è il nome al quale penso anch’io, temo che sia vero».
Conosce la vedova di Moro?
«L’ho incontrata a Torrita Tiberina, dove lo statista è sepolto, dieci anni dopo l’assassinio. M’è sembrata una donna ancora in attesa di sapere la verità. Ma se non c’è arrivata l’America per i due Kennedy...».
Fece bene lo Stato a non piegarsi al ricatto delle Br?
«Per anni ho creduto che bisognasse rifiutare qualsiasi trattativa con i terroristi. Oggi mi sono convinto che non sia affatto giusto. Moro andava salvato. La vita è più importante.

Un uomo, un marito, un padre di famiglia, viene prima di tutto, anche dei principii. Troppi politici ho sentito inneggiare ai principii, e poi erano i primi a non rispettarli».
(361. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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