I complici? Altro che cani sciolti Spunta una rete di falsi permessi

MilanoMohamaed Imbaeya Israfel aveva la carte in regola. Lavoro e permesso di soggiorno. Quattro anni fa presentò in prefettura i suoi documenti. Visto e approvato. Il libico, uno dei tre nordafricani fermati per l’attentato alla caserma di Milano, era in buona compagnia. In cinquanta erano stati assunti da un’azienda di Brescia. «Il Giardiniere», via Capriolo 27. Titolare, El Tabakh El Sayed Mohamed Aly, egiziano. Tutto a posto? No, per niente. Perché «il Giardiniere» non esiste. Almeno, secondo la direzione provinciale del lavoro, che in un’informativa inviata alla procura di Brescia - che sta indagando - segnala «molte ditte sulle quali, a seguito di approfondita attività ispettiva, sono emersi elementi comuni che meritano attenzione». Ecco il «buco» del sistema. «Si tratta di ditte - scrivono gli ispettori - interessate quasi unicamente a fornire documenti (comunicazione di assunzione, contratto di lavoro, busta paga) necessari al rinnovo del permesso di soggiorno».
In breve. Un’azienda intestata a un egiziano fornisce documenti falsi per consentire a un cittadino libico di ottenere il rinnovo del passaporto. Quello, a distanza di pochi anni, viene accusato di fare parte di un cellula terroristica che ha messo a segno un attentato. Non è solo un dettaglio. Perché nel documento inviato dagli ispettori del lavoro ai magistrati bresciani c’è altro. C’è che 48 delle cinquanta aziende sono intestate a egiziani (solo due a italiani), che «tutte le ditte esaminate - si legge - hanno occupato e occupano esclusivamente cittadini extracomunitari», che «le sedi risultano spesso inesistenti o al più luogo di residenza del titolare», che «non vi è dimostrazione concreta che sia stata svolta attività lavorativa», che «molti dei lavoratori al momento dell’assunzione sono risultati in scadenza del permesso di soggiorno». E che, infine, «alcune delle ditte avrebbero occupato diverse decine di lavoratori e il numero di lavori interessati in totale è di diverse centinaia». Tradotto, una non piccola comunità di stranieri che esce dalla clandestinità grazie a documenti falsi, prodotti da altri stranieri che a loro volta dimostrano di avere un lavoro che non esiste. Attraverso aziende che sopravvivono il tempo necessario allo scopo. Il «Giardiniere», ad esempio, ha vita breve. Nasce nel marzo del 2004 e muore otto mesi dopo, in novembre. In quella «finestra», si affaccia Israfel, l’uomo della cellula milanese su cui la Digos aveva già fatto approfondimenti a luglio di quest’anno.
È un mercato enorme, quello dei permessi di soggiorno. Perché un passaporto vale l’anonimato, ed essere dei «fantasmi» significa muoversi liberamente sul territorio, cercando - nel caso - di sfuggire agli apparati di intelligence. Il fenomeno non è nuovo. Nel 2005, un’indagine della Guardia di finanza di Milano smantellò la cellula italiana del Gia-Gspc, il Gruppo islamico armato salafita per la predicazione e il combattimento. Raccoglievano denaro e reclutavano volontari per sostenere la causa dei «fratelli» mujaheddin. Nei viaggi in pullman tra Milano, Napoli e Marsiglia, viaggiavano con soldi, schede telefoniche e, soprattutto, documenti (veri e falsi). Anche in quel caso, compaiono alcune società intestate a cittadini nordafricani. E tra le liste dei nomi (ma non tra gli indagati) ce n’è uno che, a distanza di anni, fa parlare di sé: Mohamed Game, il kamikaze.
Così, il ritrovamento nel covo della cellula milanese di altri tre passaporti (fatto che però non trova conferme ufficiali) desta nuovo allarme. Perché Game, «il lupo solitario», tanto solitario non era.

Aveva due complici, fermati nelle ore successive all’attentato e interrogati ieri dal giudice milanese (Kol si è avvalso della facoltà di non rispondere, Israfel si è detto estraneo alle accuse). Ma quei documenti fanno pensare ad altri complici ancora da individuare. E a una rete di supporto che - è il timore - potrebbe essere più strutturata di quanto non sia sembrato in un primo momento.

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