Alain Finkielkraut
Il quarantesimo anniversario del Sessantotto ha assunto in Francia proporzioni grottesche, comiche e, al tempo stesso, inquietanti. Questo movimento iconoclasta, quarant’anni dopo, si è trasformato in un’icona davanti alla quale sembriamo tutti obbligati a prostrarci per non correre il rischio di essere gravati dall’epiteto infamante di «reazionari».
I contestatari di ieri sono diventati gli incontestabili di oggi. Basta tuttavia osservare un po’ più da vicino questo fenomeno per renderci conto che non merita proprio tutti questi onori. Con il Sessantotto i francesi hanno trasferito l’esigenza di uguaglianza dal campo della politica a quello della cultura. Abbiamo destituito la cultura cosiddetta «legittima» affermando che non era altro che la cultura delle classi dominanti.
Tuttavia, in quello stesso periodo, a Praga e a Varsavia, altre primavere stavano maturando. A Varsavia, gli studenti mettevano in scena l’opera teatrale Gli avi di Adam Mickiewicz, e Praga selezionava per il Festival di Cannes tre film stupefacenti per la loro ironia e intelligenza. Uno di questi lungometraggi avrebbe vinto la Palma d’Oro se un gruppo di registi francesi sovraeccitati non avesse preteso e ottenuto l’interruzione del festival in segno di solidarietà con gli studenti e gli operai in lotta.
Milan Kundera ha magistralmente definito l’opposizione tra queste due primavere: esplosione di lirismo rivoluzionario a Parigi, affermazione di uno scetticismo post-rivoluzionario a Praga, radicalità estasiata a Parigi, rivolta popolare dei moderati a Praga. Potremmo anche aggiungere che a Parigi, come a San Francisco, a Londra e a Berlino, si cercava di mettere a punto una sorta di contro-cultura mentre a Praga nessuno si sarebbe mai sognato di definire «dominante» la cultura ereditata dal passato: questa era al contrario dominata, fragile, bisognava proteggerla, preservarla ed era pertanto necessario svilupparla con opere e influssi nuovi.
La Francia è un Paese strano. I francesi stigmatizzano il nazionalismo e ogni forma di xenofobia, difendono i sans papiers e i lavoratori clandestini in nome della loro fedeltà agli ideali del maggio del Sessantotto, ma di questo ricordano soltanto quello che è avvenuto all’interno delle frontiere nazionali. Dimentichiamo l’Europa centrale, siamo sciovinisti senza rendercene conto.
Se i nostri slanci nostalgici devono per forza rimanere franco-francesi preferirei allora che la Francia celebrasse simultaneamente il quarantesimo anniversario delle barricate di Saint Michel e il cinquantesimo anniversario di Rinoceronte, l’opera di Eugène Ionesco messa in scena per la prima volta nel 1958. Questa anticipa e descrive perfettamente la «rinocerite» che ci ha colpiti dieci anni dopo il Sessantotto: abbiamo distrutto le convenzioni in nome della natura, i nostri abiti ci infastidivano, abbiamo dunque cercato di liberarcene, e abbiamo soprattutto incominciato a imitarci tutti gli uni con gli altri.
Il Sessantotto, come ha spiegato anche Pier Paolo Pasolini in uno straordinario articolo sui capelli lunghi, pubblicato nel 1973, è stato al tempo stesso un grande momento di liberazione dei desideri e di sottomissione all’ordine gregario dell’orda.
Ma non è tutto: il Sessantotto è stato anche l’inizio di un’epoca in cui gli adulti hanno ceduto il posto ai giovani. Ricordo ancora, con una sorta di costernazione mista allo spavento, la foto di Jean-Paul Sartre seduto ai piedi di colui che incarnava allora il movimento studentesco, Daniel Cohn-Bendit. Credo che questo sia il danno peggiore che abbiamo fatto alla gioventù: erigere questa età di incompiutezza a età di pienezza.
Ecco perché è per noi oggi
necessario, direi perfino urgente, diventare gli avvocati di un’eredità nuova, diversa, e dichiararci fedeli non più al maggio del Sessantotto francese ma alla primavera di Praga.(Traduzione di Silvia Benedetti)
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