Ma i giovani non ne sanno nulla

C’erano tutti a Berlino. Come una finale del mondiale, ma di più: la voglia di vedere la storia da vicino. C’erano giornalisti, c’erano politici, c’erano giovani diventati leader di partiti, governi, Stati. C’era il mondo a Berlino, vent’anni fa. Abbiamo letto le testimonianze, abbiamo rivisto le immagini, abbiamo risentito le emozioni. Chi era piccolo allora s’è già fatto la scorpacciata nel decennale. Le stesse testimonianze, le stesse immagini, le stesse emozioni. Come alla rivoluzione sulla Due Cavalli, così alla caduta del Muro in Mini, oppure in Golf, che faceva più tedesco occidentale. Non importa che qualcuno abbia picconato o meno. Nicolas Sarkozy, per esempio dice di aver imbracciato un martello, lo mette su Facebook, ma viene smentito da mezza Francia. L’importante allora era esserci, anche il giorno dopo, oppure due. Berlino era dolce in quelle ore. Dolce per gli anticomunisti e però dolciastra anche per i comunisti meno comunisti degli altri. Era buona per tutti, perché i simboli valgono più dei fatti, perché una foto sul Muro che cade è un pezzo di leggenda che ti porti per la vita. Io c’ero. Cioè la dimostrazione di aver capito tutto della storia e del mondo. Esserci per raccontare.
Ecco, raccontare a chi? Agli amici, ai figli, ai nipoti. Come il nonno che torna dalla guerra e recita sempre la stessa storiella: «Mi catturarono in Russia, feci due mesi di lavori forzati a Vladivostock». I giovani di Berlino oggi hanno figli senza memoria specchiata: non hanno saputo, non hanno sentito, non hanno incamerato. Ventenni senza idea del valore simbolico di questa data che per loro è estranea: 9 novembre 1989.
Provate a chiedere a caso a un ragazzo nato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Qualcuno l’ha fatto. Che cos’era il Muro di Berlino? Chi lo costruì? Ci sono ragazzi che pensano che a farlo siano stati gli americani, ci sono quelli che lo hanno buttato giù in un videogioco, lo hanno visto in un film, ne hanno sentito parlare sull’autobus o a casa, davanti alla cena e al tg della sera. Spizzichi e bocconi di verità.
L’Avvenire, qualche tempo fa, ha pubblicato un sondaggio regionale: per dirne una, nei licei di tutto il Veneto, una sola ragazza ha risposto con precisione indiscutibile alle domande. Così nelle altre zone d’Italia, così ovunque. Brandelli di nozioni, briciole di conoscenza. La storia frantumata per farci aggrappare a quella ragazza e alle poche come lei: fa la quarta superiore di un istituto tecnico-commerciale di Padova. Ha origini polacche, ha sempre sentito raccontare la storia del Muro di Berlino dai genitori, che quella notte erano là, appena oltre la cortina, per trovare la libertà, e qualche mese dopo emigrati in Italia. Lei voleva viverla in prima persona, quell’emozione. Ha chiesto ai professori di arrivare fino al 1989 nel programma di studio dell’ultimo anno di scuola. I programmi. Quelli che a malapena arrivano alla fine della Seconda guerra mondiale e non ti dicono che cosa ci sia stato dopo. Cioè da dove veniamo noi, da dove arriva il nostro Occidente che è diverso dal loro Oriente.
La scuola, certo. Poi gli altri: genitori, zii, fratelli grandi, cugini, una manica di banditi che si sono tenuti la memoria per se stessi. Io c’ero per starmene zitto. Perché non è colpa dei ragazzi che non sanno. È colpa di chi non gliele ha raccontate. Perché arrivano le badanti romene e ucraine in Italia? Non è possibile che nessuno dei giovani non l’abbia chiesto una volta. Arrivano perché il mondo è cambiato il 9 novembre di vent’anni fa, eccetera eccetera. Non c’è bisogno di fare la lezioncina, basta sedersi e rispondere, basta mettersi vicino e approfittare di uno degli appuntamenti tv che mandano in onda i baffoni tedeschi che picconano il comunismo e poi s’abbracciano con altri baffoni tedeschi un po’ meglio vestiti.

Forse bisognava solo trovare le parole giuste per dire che cos’è stato il Muro di Berlino, che cosa c’era là dietro. E bastava averlo visto in tv all’epoca. Non serviva neanche la foto con il rudere alle spalle. Non serviva aver visto Berlino. Non serviva dire «io c’ero».

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