Cultura e Spettacoli

I giudici: nei reality c’è libertà d’insulto

Le stravaganze delle sentenze dei tribunali non ci sorprendono più; eppure qualche volta la fantasia retorica dei giudici riesce ancora a strapparci dall’indifferenza. Dunque, supponiamo di camminare per il quartiere malfamato di una città, e improvvisamente dall’angolo di una strada sbuca fuori un malvivente che mi pesta e mi deruba. Vado dai carabinieri e denuncio il fatto; mi vengono mostrate delle fotografie segnaletiche e riconosco l’aggressore, che il carabinieri arrestano in ventiquattr’ore. Lui perfino confessa. In conclusione, c’è il ladro l’arresto, la confessione del reato. Si va in tribunale, ma i giudici lo assolvono. Perché? E qui viene il bello. Il motivo dell’assoluzione, spiegato nella sentenza, dipende dal fatto che io, passeggiando per un quartiere notoriamente malfamato della città, dovevo aspettarmi di essere aggredito. Quindi il fesso sono io, mentre il ladro ha semplicemente agito nel suo ambiente, che è quello proprio dei furfanti. La storia di questa sentenza è farina del mio sacco: pura fantasia. Ma leggete adesso quello che è realmente accaduto.
In uno dei primi reality show italiani, Survivor, trasmesso su Italia 1 a febbraio 2001, antesignano dell’Isola dei famosi, accadde che un concorrente, Franco Mancini, si sentì dare del pedofilo da un altro concorrente, Samuele Saragoni, per le attenzioni che rivolgeva a una concorrente molto più giovane di lui, sebbene maggiorenne. Terminata la trasmissione e ritornato a casa, il Mancini si accorse che l’epiteto di pedofilo gli era rimasto incollato addosso, e la gente, per scherzo, si rivolgeva a lui dandogli del pedofilo. A questo punto Mancini decide di querelare Saragoni per l’ingiuria patita, ma il tribunale, addirittura la Cassazione, non gli dà ragione e assolve Saragoni, che ha così potuto impunemente dare del pedofilo a una persona.
Cosa sostiene la sentenza della Cassazione nel respingere la querela di Mancini? In essa si legge che i reality show hanno la «caratteristica di sollecitare il contrasto verbale tra i partecipanti, e i concorrenti ne sono perfettamente consapevoli». Dunque, non è stato commessa alcuna diffamazione perché «bisogna tener conto del contesto nel quale essa è inserita». Insomma, come nel mio esempio di fantasia il ladro non commette reato perché agisce «nel suo contesto», cioè in un quartiere malfamato, così nei reality ci si può insultare nel modo più sanguinoso senza rischiare denunce perché si sa che lì le diffamazioni fioriscono e sguazzano nel loro contesto.
Che i reality siano trasmissioni grondanti volgarità, come principio fondamentale della comunicazione, e quindi degli ascolti, lo vado predicando da anni, e ormai è una verità condivisa da tutti, anche dai giudici della Cassazione. Dove, se non in quei programmi, l’insulto, la violenza verbale, l’oscenità sono di casa? La Cassazione ha ragione: quello è il contesto della diffamazione. Ma cosa fanno i giudici? Invece di isolare la sottocultura da postribolo del reality, la assolve, consegnando in dote al popolo italiano una zona franca catodica per l’esercizio sfrenato della volgarità. La sentenza dei giudici è perfida nel suo carattere perverso. È come se dicesse: italiani, volete i reality? Beccatevi le conseguenze. E questa è la perfidia.
Il carattere perverso è che il pubblico televisivo assiste allo spettacolo, non ne è il protagonista, e va tutelato. (È vero che la migliore tutela è cambiare canale, ma questo gesto semplicissimo richiede un esercizio mentale faticoso, e adesso non è il caso di soffermarsi sulla questione). Se si ritiene che un pubblico maggiorenne non vada tutelato dal cattivo gusto, allora si enunci a chiare lettere che certi comportamenti, a cui assiste, sono inaccettabili, proprio a norma di legge. La Cassazione invece subordina il proprio giudizio alla qualità della trasmissione televisiva: alza le mani e si arrende.
Sono del parere che meno intervengono i tribunali nella vita delle persone e maggiore è la responsabilità civile. Però se il messaggio che arriva da un tribunale afferma che certe trasmissioni televisive possono essere una zona franca in cui tutto è lecito, ci sarà la rincorsa a creare programmi trash in cui riversare di tutto, dalla polemica politica a quella religiosa, dove trionferanno felici la volgarità e l’ignoranza.

E queste saranno spacciate come alte espressioni della libertà d’informazione.

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