I Giusti d’Italia che scelsero la banalità del Bene

Le «storie di ordinario coraggio» degli italiani che si prodigarono per salvare i perseguitati a rischio della propria vita

A come Aceti Giuseppina, B come Bartoleschi Vincenzo, C come Caronia Giuseppe: sono alcuni dei quasi quattrocento italiani che hanno aiutato gli ebrei in difficoltà in un’Italia che improvvisamente aveva abbracciato l’antisemitismo durante il regime fascista. I cittadini italiani di religione ebraica che fino a quel momento erano ben integrati nel tessuto sociale, di colpo divennero le vittime incolpevoli di un’epoca che aveva smarrito la propria coscienza. La campagna razziale ormai tristemente nota del 1938 sorprese sia gli ebrei che gli italiani non ebrei: bambini, ragazzi e insegnanti espulsi dalle scuole pubbliche, ebrei stranieri allontanati dal suolo italiano, in un crescendo di leggi e circolari ministeriali che avvelenarono la vita di chi faceva parte di una «razza» considerata sgradita. Tutto ciò avveniva mentre il Paese era alleato con la Germania nazista che perseguiva, riguardo agli ebrei, una spietata politica discriminatoria. Ma se l’avversione tedesca nei confronti del popolo ebraico era dettata da razzismo biologico e sconfinò nella tragedia della soluzione finale, l’Italia fascista - nonostante avesse elaborato una propria politica antiebraica di cui non si cancellano le responsabilità - era tuttavia lontanissima dall’idea di ricorrere a uno sterminio di massa. Il clima che gli ebrei italiani respiravano era complesso, carico di luci e ombre, in un singolare miscuglio di benevolenza e tradimento, di persecuzione e aiuto.
Ed è proprio alla straordinaria solidarietà di molti italiani coraggiosi che si rivolge il libro I Giusti d'Italia. I non ebrei che salvarono gli ebrei, 1943-45, uno degli otto volumi dell’Enciclopedia dei Giusti fra le nazioni, compilata dallo Yad Vashem, l’Istituto della memoria della Shoah in Israele (edito da Mondadori, con il messaggio del presidente Ciampi, un’introduzione del ministro Fini, la postfazione di Liliana Picciotto e una serie di interventi di studiosi dello Yad Vashem): un’opera di grande rilievo storico e umano che racconta le vicende di uomini e donne che salvarono uno o più ebrei e misero a rischio la loro stessa esistenza.
Ma chi erano i Giusti? Chi erano queste persone, per lo più sconosciute, che seppero proteggere il valore e la dignità dell’uomo in un periodo oscuro della storia europea, al contrario di chi invece non assumeva rischi con l’alibi di non poter incidere su una simile realtà? (un atteggiamento che equivaleva a un «silenzio-assenso»). «Il Giusto - scrive Avner Shalev, presidente del Comitato di direzione di Yad Vashem - simboleggia l’essere umano, l’essenza stessa dell’idea del libero arbitrio dell’uomo di scegliere il bene contro il male e di non restare indifferente». In una sorta di «elenco del bene», scorrono i nomi e i volti anonimi e un po’ sfuocati di quei Giusti italiani riconosciuti dallo Yad Vashem (ma ci sono altri casi ancora in esame), frutto di una procedura scrupolosa e complessa, finalizzata ad accertare la verità dei fatti; volti rigorosamente allineati in ordine alfabetico, che raccontano storie simili e diverse da quelle già note al grande pubblico, come quelle di Schindler, Perlasca e Peshev. Basta aprire il libro ed ecco sfilare le vicende tratte dalle testimonianze dei sopravvissuti, segnate da successi e fallimenti, spesso commoventi di persone di ogni fede e ceto sociale, anziani, giovani, parroci, suore, atei, antifascisti e fascisti; addirittura di soccorritori antisemiti disgustati dai crimini nazisti e di coloro che erano supposti di essere i «persecutori», come funzionari di polizia, carabinieri, finanzieri e perfino «camicie nere», all’occasione capaci di chiudere un occhio. Italiani brava gente insomma, uniti in un esemplare concorso di buone azioni come trovare documenti falsi, finte tessere annonarie, rifugio, cibo e nell’accompagnare i clandestini alla frontiera italo-svizzera.
Uno di loro, il dottor Arnaldi, accompagnò alcuni ebrei al confine: morì combattendo contro i tedeschi nel ’44. Un altro eroe fu l’avvocato Giuseppe Brusasca che creò una rete di resistenza nel Monferrato. Salvò la famiglia Foa di Casale, i Sacerdote di Milano e i Donati di Modena: di quest’ultimo riuscì a salvare parte delle proprietà trasferendole a suo nome. Nascondere bambini era particolarmente rischioso: Ida Brunelli in Lenti, di 15 anni, faceva la bambinaia presso una famiglia di rifugiati ungheresi, salvò la vita a tre bambini a lei affidati. Nonostante il silenzio ufficiale del Vaticano sulla Shoah, furono molti i sacerdoti e le suore che nascosero gli ebrei nei monasteri, negli orfanotrofi e altre istituzioni ecclesiastiche nell’Italia occupata. Uno fra tutti Padre Benedetto Maria che a Roma trasformò il convento dei cappuccini in via Sicilia in un centro di transito e di assistenza per centinaia di ebrei e rifugiati che si opponevano al nazismo. Ci furono poi i contadini come Attilio e Lidia Pigliapoco, che gestivano la proprietà dei Morpurgo nel paesino di Polverigi, vicino ad Ancona, e salvarono i loro datori di lavoro. Ci furono medici che curarono ebrei nascosti sotto falsa identità: a Roma, il noto pediatra Giuseppe Caronia, evitò la deportazione a dozzine di ebrei ricoverandoli in ospedale. Ma anche le autorità fecero la loro parte rischiando la carriera: Carlo Ravera, maresciallo dei carabinieri di Alba, in provincia di Cuneo, fu fondamentale nel salvataggio di dodici famiglie ebree, per lo più profughi jugoslavi.
Ne Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall'Italia, 1943-1945 (Mursia, 2002), Liliana Picciotto scrive che durante l’occupazione tedesca su 33.360 ebrei italiani e 1.900 del Dodecaneso, 8.869 furono deportati nei lager. Di essi 7.860 perirono. Solo un piccolo numero trovò la morte sul suolo italiano (303 persone). La percentuale di sopravvissuti in Italia fu alta proprio per la grande solidarietà della popolazione.

Di fronte allo stupore dei media o dei curiosi nei confronti del coraggio e dell’eticità delle loro azioni, i Giusti quasi sempre hanno manifestato uno stupore ancora maggiore. Quasi sempre dichiarano di non aver fatto nulla di speciale: «È stata poca cosa e del tutto naturale - è la frase ricorrente - che cosa avreste fatto, voi, al posto mio?».

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