I « guru» della sapienza orientale sono Erodoto e i professoroni inglesi

Oriente e Occidente. Occidente e Oriente. Due mondi che, quanto a comprensione, si sfiorano ma non si toccano. E che, quando non se le danno di santa (ed economica) ragione, si studiano con passione sospettosa.
Questa curiosità inevitabile, che corre sul sottile crinale che separa l’amore dall’odio, dentro le mura della «fortezza occidentale» è detta «orientalismo», almeno quando assume la forma di ricerca dotta. E che si tratti di studiare il Corano, l’economia delle paludi irakene o le dee indiane a sei braccia, poco importa. Anzi, uno dei pregi della nostra cultura è, forse, proprio l’aver guardato «l’altro» molto più scientificamente di quanto «l’altro» abbia guardato noi. Eppure dell’orientalismo, a partire dalla fine degli anni ’70, si è detto molto male, a cominciare proprio dagli studiosi orientali cresciuti nelle nostre università, come Edward Said (subito imitato da tutti quegli occidentali che volevano un pedigree mondialista). L’uzzolo di indagare le culture dell’Est e del Sud-Est altro non sarebbe stato che colonialismo verniciato di dottrina.
Bene, dopo tanti anni, Robert Irwin, professore emerito della Scuola di studi orientali e africani di Londra, ha deciso di fare il punto su quale sia davvero il rapporto tra colonie e passione per le altrui culture. Nel suo Lumi dall’Oriente (Donzelli, pagg. 351 euro 30, trad. Francesca Gerla) racconta come e perché l’Europa e, più tardivamente, l’America, si siano lambiccate il cervello sull’arabo, sull’ebraico, siano impazzite per le stoffe indiane o per le cineserie. Il risultato è una narrazione piena di curiosità che dimostra l’orientalismo esistere ben prima del colonialismo. Da Erodoto agli orientalisti del Terzo Reich, passando per quel genio folle dell’orientalismo cinquecentesco che fu Guillaume Postel, è esistita un’irresistibile curiosità verso le steppe asiatiche o i deserti arabici. A volte dettata dalla paura, altre volte dalla necessità, altre ancora dalla moda o dal desiderio di allestire una Wunderkammern, o dal voler usare arabi e indiani per ammaestrare i propri correligionari.


Insomma, le culture si parlano, si «annusano» anche in pieno scontro. Con buona pace degli integralisti di ciascun fronte. Per questo la Sicilia non sarebbe la Sicilia senza gli arabi e l’India non sarebbe l’India senza gli inglesi.

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