«I miei più grandi sostenitori sono stati due scrittori ebrei»

di Giovanni Terzi

Duce, posso darle del «lei»? Il «voi», ormai, è acqua passata. E come debbo chiamarla?
«Mi dia del “lei” e mi chiami Benito. Lo so, era il nome di un rivoluzionario sudamericano, ma la mia famiglia era rivoluzionaria da sempre, socialista e di sinistra, e anch’io lo sono stato».
Quando?
«Fin dalla mia prima gioventù. Ero iscritto al Partito socialista, ma nel settembre 1911, quando il governo Giolitti decise di invadere la Libia, mi ribellai anche ai vertici del mio partito, a Filippo Turati e a Claudio Treves, che, riunitisi, a Milano, nell’appartamento di Anna Kuliscioff, in piazza del Duomo, avevano deciso di dichiararsi solidali con Giolitti».
Fu quando guidò la rivolta di piazza, a Forlì, assieme a Pietro Nenni?
«Sì, il 25, 26 e 27 settembre 1911. Fui arrestato e processato. Al processo, mi risentii moltissimo. Ammettevo tutto meno l’ultimo capo d’accusa che respinsi violentemente: “atto indegno di un combattente”. Avrebbe significato fare del male a degli innocenti».
E quanto le dettero?
«Cinque mesi di reclusione. Dopodiché me ne andai in Svizzera. Ma da lì a poco tornai in Italia, a Milano, perché il partito mi aveva affidato la direzione dell’Avanti!».
Durò poco, però. Nel famoso libro Dux di Margherita Sarfatti, si legge: «Si congedò dall’Avanti! senza volere l’indennità giornalistica e neppure lo stipendio in corso, e persino rifiutando quel migliaio di lire che la direzione del partito lo supplicava di accettare per i bisogni della sua famiglia. Eppure, fondava ora un giornale proprio. Chiaro che aveva accettato l’“oro francese”». Un’accusa un po’ dura…
«Ma neanche per sogno. Era arrivato il momento di scendere in campo, con le armi in pugno contro l’impero austriaco, nostro oppressore da secoli, non contro i poveri libici. Così fondai il Popolo d’Italia e lo chiamai “quotidiano socialista”.
Lei si sentiva più uomo politico e capo del governo o più giornalista?
«Le rispondo con le esatte mie parole che riportò in proposito Margherita Sarfatti nel suo Dux: andando al governo, spesso e volentieri prendevo dei fogli e scrivevo qualche cosa che poteva interessare agli italiani. Ciò aveva l’apparenza solenne delle note ufficiose o ufficiali che dir si voglia. Erano invece dei piccoli articoli».
A proposito di Margherita Sarfatti, brillante giornalista, bella signora ebrea che per molti anni fu legata a lei da passione amorosa, che opinione aveva di lei come uomo?
«Nell’ultima edizione di Dux si legge: “…Benché abbia dato alle donne, con molta generosità, il diritto di suffragio amministrativo, al condottiero romagnolo la donna appare tuttavia sempre, da egoista maschile, in funzione di persona bella e destinata a piacere”».
Benito, è vero che il famoso giudizio “Governare gli italiani non è impossibile, è inutile” lei lo copiò da Giovanni Giolitti?
«Ma neanche per sogno! Il giudizio è mio e la frase è mia. Ed è anche la verità. Del resto, basta girarsi indietro e dare uno sguardo alle vicende degli italiani nei secoli: sempre divisi, sempre pronti a passare da una barricata all’altra, sempre pronti a cambiare bandiera ai primi accenni di maltempo».
Lei cita continuamente Dux. Ma nel ’38, quando furono varate le leggi razziali, il ministero dell’Educazione nazionale lo fece ritirare da tutte le librerie, e la Sarfatti dovette fuggire negli Stati Uniti.
«Perché insiste su questo tasto? Io ho sempre avuto la massima considerazione per gli ebrei. Il ministro degli Interni del mio primo governo, Finzi, era ebreo, l’amministratore del Popolo d’Italia era ebreo, tra i fascisti della prima ora c’erano molti ebrei. Ma ciò che mi fece optare per le leggi razziali fu l’ostilità della finanza mondiale, dominata dalle lobby ebraiche, nei confronti dell’Italia…».
A proposito di ebrei, Benito, anche l’altro celebre libro dedicato a lei e destinato a restare nella storia, fu scritto da un ebreo.
«Sta parlando dei Colloqui con Mussolini, scritto da Emil Ludwig, grande scrittore e storico tedesco, di stirpe e di religione ebraica. Mi feci intervistare nel 1932, ogni pomeriggio, per la durata di un’ora e per due settimane».
Ci può ricordare alcune delle risposte che diede alle domande di Ludwig?
«Incominciamo da quella sull’amicizia. Gli dissi che non potevo avere amici. Per il mio temperamento, e per il mio concetto degli uomini. Gli precisai che gli amici più fedeli erano per lo più erano molto lontani. Erano coloro che non avevano mai voluto niente».
Nel libro c’è anche un capitolo dedicato alla fede…
«In gioventù, ogni misticismo mi era estraneo, ma negli ultimi anni, era cresciuto in me il convincimento che potesse esservi una forza divina nell’universo. A Ludwig precisai “divina”, e non necessariamente “cristiana”».
La pensa sempre così?
«No, ora so che Dio è il Cristo. Ma lo sapevo già a Gargnano, quando, pochi giorni prima della fine, ricevetti l’assoluzione, dopo essermi confessato».


Con riferimento alla crisi economica del ’29 Ludwig le chiese: «perché, data la sua battaglia contro le barriere doganali, non fonda l’Europa?». Che cosa rispose a quella domanda
«Risposi così: sono vicino a questa idea, ma il tempo non è ancora maturo. Vedremo nuove rivoluzioni: solo da esse sorgerà il nuovo europeo».

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