I nostri scrittori? Sono preistorici

I nostri scrittori? Sono preistorici

M a perché la narrativa italiana non sa raccontare la modernità, e neppure l’assoluto? Perché è tutto così ammuffito e vecchio e di cortissime vedute? Per esempio: non si fa che leggere che internet ha rivoluzionato le nostre vite, che la nostra percezione della realtà è mutata addirittura a livello neurologico, ma al massimo della visionarietà ci si scambia qualche mail in un romanzo di Sandro Veronesi, magari cambiando il corpo del carattere, per far capire che è una mail.
A proposito di realismo: il sommo Marcel Proust imputava all’incapacità di cogliere la realtà un «difetto d’immaginazione», che non significa scrivere un fantasy, Harry Potter o la Bibbia, anzi. E tuttavia perfino D’Annunzio l’abbiamo preso per un grande «immaginifico», e James Joyce allora cos’era? Qui mai niente di globale, di universale, un Infinite Jest, stringi stringi almeno un Everyman.
Nei romanzi italiani la modernità psicologica è preistorica, mica abbiamo un David Lodge capace di fondare un intero romanzo sulle ricerche di Daniel Dennett e raccontarci perché siamo delle macchine pensanti, macché, qui non sappiamo neppure chi sia Dennett. E allora, scusate, perché mai dovrei leggermi i patemi d’animo di Elena Stancanelli, l’uomo giusto, m’ama o non m’ama e mamma o non mamma, quando sembrano così primitivi e elementari rispetto ai sentimenti raccontati da Laclos, Flaubert, Tolstoj, e perfino da Madame de La Fayette? E se avesse avuto novant’anni, se anziché una scrittrice TQ (TrentaQuaranta) fosse stata mia nonna NC (NovantaCento) cosa avrebbe scritto, l’estasi di Santa Teresa? E pensate che Mariolina Venezia viene elogiata sull’ultimo Tuttolibri dall’avanguardista Renato Barilli per «raccontare storie tutte di stringente attualità, a cominciare da quella dell’emigrante, il berbero Idir».
In ogni caso le giovani scrittrici italiane è meglio lasciarle perdere, e parlo delle giovani, non dei pezzi da museo tipo la Maraini: è più moderna la Clelia di Garibaldi della Clelia di Valeria Parrella, Isabella Santacroce è ancora lì che dialoga con Gesù Cristo e Michela Murgia prega la Madonna. Ai tempi di Dante le avrebbero prese per contemporanee. Come trent’anni fa: mentre Don DeLillo rilasciava interviste su Rumore bianco, al Maurizio Costanzo Show c’erano Romano Battaglia che abbracciava gli alberi e Lara Cardella che voleva i pantaloni; e dopo un altro ventennio ci sembravano moderni i colpi di spazzola di Melissa P. Sul fronte avanguardistico poi c’erano i cannibali, diventati tutti mamme e papà e stabat mater, perfino Gozzano se li sarebbe mangiati.
Io capisco Mauro Corona, lui vive in montagna. Capisco Andrea De Carlo, lui vive in campagna. Capisco Baricco, vive Baricco. Capisco anche Mario Desiati e Nicola Lagioia, sono nati in Puglia e scrivono della Puglia, come i sardi scrivono della Sardegna, i napoletani di Napoli e i siciliani della Sicilia, c’è poco da fare, ma gli altri? Walter Siti ha raccontato magistralmente la televisione, d’accordo, in Troppi paradisi l’unico bel romanzo italiano letto e citato dal critico Berardinelli, ma proposto in chiave postpasoliniana, con gli escort culturisti al posto dei riccetti, tanto per impolverarlo un po’.
E così nelle terze pagine si svolgono piccoli dibattiti da oratorio sull’«esperienza» e l’«inesperienza», il realismo e il non realismo, il valore civile, la Storia Patria, l’indignazione; e basta andare a vedere i campioni dei premi Strega, si passa dagli operai di Piombino ai braccianti delle Paludi Pontine ai disoccupati di Prato. E comunque la questione è che Samuel Beckett può essere sempre attuale e raccontare il nulla in una stanza, forse perfino Gino Paoli, Tiziano Scarpa no.
Invece spesso e volentieri ci si cimenta nel raccontare i conflitti internazionali ma senza ambire a Guerra e pace e senza muovere il sederino dal divano di casa. Mica siamo William Vollmann, che va e torna dall’Afghanistan con romanzi mostruosi di mille pagine, e allora ecco: internet al massimo ci serve a questo, a fare copia e incolla per far credere di aver schivato una pallottola a Kabul. E poi se non è zuppa sentimentalistica è il pan bagnato dalla cronaca sociale, immancabilmente predicatoria, celentanesca: l’autore con il ditino alzato, per indicarti il bene e il male. Infatti non appena arriva un romanzo dall’estero, tipo un Michel Houllebecq che ti racconta il futuro della clonazione, una particella elementare, la possibilità di un’isola, si resta spaesati per l’assenza di moralismo, ci si scandalizza e lo si accusa di fiancheggiare gli Elohim. D’altra parte noi non abbiamo mai avuto un Thomas Pynchon, ci meritiamo Tommaso Pincio.
Il massimo dello sforzo d’immaginazione scientifica e fantascientifica non di genere è Antonio Scurati e una Venezia allagata del 2092, per raccontare un’apocalisse che comunque «rappresenta l’Italia di Berlusconi», pensa tu che sforzo d’immaginazione, pensa tu che ennesimo buco nell’acqua editoriale, cioè appena Scurati arriva in libreria via Berlusconi e su il governo Monti, il romanzo del futuro è da buttare, già passato. Come se Murakami Haruki avesse scritto 1Q84 per raccontare il Giappone di Yoshihiko Noda, allora tanto valeva tenersi Murakami Shikibu. E allora se tanto mi dà tanto meglio attaccarsi a Dagospia, il Balzac dei nostri giorni e anche il Gadda, visto lo gnommero linguistico che crea.

Tanto più che ospita il mio appuntamento comico preferito, gli interventi di Aldo Busi, che manda sms dove spiega come essere omosessuali moderni, cioè facendo outing e non scopando più con nessuno, un’altra predica da parrocchia ma così è anche se non vi pare Busi ma Bagnasco, e amen.

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