I personaggi e i fatti che raccontano la storia del nostro Paese in una serie di immagini d'autore

La stanza è piena di Gassman. Dico della fotografia che illustra queste pagine. C'è una libreria, nemmeno piena di volumi, ci sono due lampade accese dinanzi a un quadro che sembra austero, un'altra luce illumina più in là il salone, una sigaretta appare tra le dita affusolate di un uomo seduto su un divano di velluto liscio. Vittorio Gassman volge indietro lo sguardo, verso l'obiettivo di chi lo sta per fotografare. L'espressione è di una malinconia solitaria, il volto ha lineamenti perfetti, vivissimi sono gli occhi scuri, le sopracciglia nere, ma la bocca non ha un sorriso vero, aperto, semmai sembra celare un pensiero rassegnato. Eppure l'immagine risale agli anni ruggenti, quando Vittorio era tale di nome e di esistenza, numero uno, assoluto, mattatore ma mai attore matto, al punto da celebrarsi nell'epitaffio che lui stesso scrisse e volle sulla sua tomba: «Non fui mai impallato». Mai nessuno davanti, in scena, nel procedere quotidiano, in un tempo lungo tre quarti di secolo, ma pure fulmineo, per un artista che incominciò a pensare alla morte quando invece la vita lo stava accarezzando e avvolgendo di amori e trionfi continui.
Gassman è stato l'italiano che tutti avremmo voluto essere, a differenza del suo sodale Sordi destinato a un profilo meschino, a volte vigliacco, di margine.
E' stato marito, amante, padre, profumo di uomo sempre, quattro mogli e compagne, altrettanti tra figlie e figli, mille amori balneari e clandestini in un'epoca in cui un bacio galeotto era scandalo di Patria, non di condominio.
Era atleta, tifoso, vigoroso, teatrale, tragico e comico, bugiardo, egoista, accentratore, dominatore, addirittura antipatico al punto di esserlo per se stesso, non volendo accettare l'indecenza della vecchiaia, l'età che non si conta ma si pesa, lo specchio che mostra le rughe e attorno la luce è debole e nessun riflettore può rischiarare.
Era Brancaleone e Tigre, Otello e Amleto, poteva leggere, affabulando con lo stesso tono unico, profondo, cupo, Dante e Montale, Foscolo e il menù di una trattoria. Avrebbe voluto due vite da Dio, la prima per provare, la seconda per andare in scena. Una sola l'ha recitata fortissimamente, con un sorpasso continuo. Se alla nascita avesse conservato nel cognome l'ultima enne che gli venne invece tolta all'anagrafe, forse sarebbe vissuto qualche atto in più. Si arrese a se stesso, alla depressione maligna, accentuata da lui medesimo, la barba, le ciglia che continuavano a strizzarsi sugli occhi, il teatro della vita sempre più piccolo, buio, periferico. Pensò addirittura di farsi imbalsamare, per restare tra i viventi come un animale impagliato. Ne parlò con Andreotti che, probabilmente, non contestò l'idea di una tassidermia clamorosa nella capitale. Con Mario Monicelli condivise uno splendido pensiero: muoiono soltanto gli stronzi.

Se ne andò di notte, scivolò via nel silenzio, come accade dopo l'ultima battuta, l'ultima parola di un copione sul tavolaccio del palcoscenico.
Credo di ascoltare la sua voce e di rivedere il suo sorriso fresco, furbo, italiano.
Tony Damascelli

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