I trionfi di luce del «chiarismo» Omaggio a 5 maestri del colore

Elena Pontiggia

Si torna a parlare del chiarismo. L'occasione, questa volta, è la suggestiva mostra «Colore, luce, il bianco», a cura di Stefano Crespi, aperta fino all'8 gennaio alla Galleria Ponte Rosso (via Brera 2). È una rassegna che documenta l’interesse per la luce, e di conseguenza per il colore bianco, nei cinque protagonisti della tendenza, Del Bon, De Rocchi, Lilloni, Spilimbergo, De Amicis. Ma di chiarismo, in questi anni, si è parlato molto. Anzi, si può dire che c'è stata una vera rivoluzione nella storiografia: se, fino a due decenni fa, gli studi sull’arte a Milano negli anni Trenta si concentravano soprattutto sugli astrattisti e su «Corrente», il movimento espressionista nato nel 1938, oggi si è più interessati alle tendenze espressive dell'inizio del decennio, e in particolare al chiarismo. Il quale non è affatto una pittura «sbigottita e deboletta», come qualcuno l’ha considerata, ma un’area, anzi un clima, di profonda tensione lirica.
Il termine chiarismo, diffuso nel 1939 dallo scrittore Guido Piovene, ma già usato nel 1935 da Borgese, si riferisce soprattutto ai cinque artisti prima ricordati, che in quel periodo, a contatto col critico Edoardo Persico, lavorano a una pittura dai toni chiari e luminosi: una pittura che oltrepassa il chiaroscuro del «Novecento» in nome di una commossa poeticità del colore e di un anticlassicismo venato ora di stupore, ora di inquietudine.
La mostra della Ponte Rosso si può considerare dunque anche un omaggio a Persico, il coraggioso critico napoletano, morto a trentacinque anni (in miseria: in casa sua, al momento della sua scomparsa, si faceva luce con le candele, perché gli avevano tolto la corrente elettrica per morosità) in circostanze mai chiarite. Forse ucciso dai fascisti, forse dagli antifascisti che sospettavano fosse una spia. Era l’11 gennaio 1936, più o meno settant’anni fa.
La rassegna comunque non si concentra solo sugli anni Trenta e Quaranta, ma segue i cinque artisti nei decenni successivi. Ecco dunque, perfettamente in tema, le nevicate di Spilimbergo: opere di sottile fascino, in cui il colore diventa materia e al tempo stesso mantiene una strana, inspiegabile leggerezza. Quegli alberi dispersi nel bianco sono un'immagine della vita: un segno fragile, immerso nell'infinito.
Anche Lilloni affronta il tema della nevicata, ma osservate in particolare il suo Mattino a Venezia (1946): un po’ magico, un po’ incantato, un po' ridente, uno dei mattini più belli della pittura italiana di quegli anni. E ancora, ecco i segni nervosi di Del Bon, quelli più volumetrici di De Amicis.

Straordinariamente luminosi, infine, sono i Gladioli e ortensie di De Rocchi, fiori che sembrano fatti di neve. E pensare che li ha dipinti nel '44, un anno ben poco adatto a effusioni liriche. Ma quell’immagine era, anche, un tentativo di speranza.

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