I veri bassi di Napoli sono le scuole

Marcello D’Orta

Non esiste una data di nascita dei «bassi» napoletani; da noi si ha la sensazione che siano sempre esistiti. Boccaccio (che fu a Napoli nel 1327) sembra far riferimento ad essi quando scrive «Guardo quelle che sedevano presso la porta delle loro case in Via Capuana». Tuttavia la storia di questo locale seminterrato si fa risalire ufficialmente al tempo della dominazione spagnola a Napoli (secoli XVI e XVII). Allora la popolazione della città era in continuo aumento, e siccome per ragioni militari le autorità spagnole avevano vietato che si costruisse fuori della cinta urbana, i napoletani innalzarono case di cinque, sei, sette piani prendendo nello stesso tempo ad abitare locali, esercizi pubblici, botteghe artigiane, tutti quegli edifici che davano sulla strada, e in qualche modo potevano ospitare persone. Erano nati i bassi.
Ciò nonostante, l'originaria funzione di quei locali - cioè la rivendita delle merci al minuto - non cessò di essere esercitata. Gli abitatori dei bassi continuarono la loro attività commerciale, e casa e negozio diventarono una sola cosa.
Quando si parla di «economia del vicolo» s'intende essenzialmente questo, e tale secolare attività commerciale è testimoniata dai nomi delle strade: vico Panettieri, vico dei Carrozzieri, vico dei Tintori eccetera. Per arginare il fenomeno, che nei secoli non conobbe contrazioni (basti dire che nel 1881 si contavano 22.785 bassi, e oggi all'incirca 40.000) le autorità fecero apporre sugli edifici posti al livello della strada le targhe «Terraneo non destinato ad abitazione» ma il divieto fu sempre ignorato. Ora, un progetto di riqualificazione dei Quartieri Spagnoli (la casbah a ridosso della centralissima via Toledo), prevede la demolizione delle centinaia di bassi e terranei esistenti o la loro «conversione» in ristoranti, botteghe artigiane e negozi. Gli abitanti dei bassi non saranno spostati in altre zone, ma trasferiti in edifici degli stessi Quartieri Spagnoli.
Napoli guarda agli esempi positivi di Lisbona e Barcellona, dove i quartieri del degrado sono stati trasformati in rioni turistici, con la lenta ma inesorabile sconfitta della microcriminalità. Per tale progetto (a lungo termine, almeno dieci anni di lavori) la Regione Campania ha già stanziato 10 dei 27 milioni di euro previsti. Negli anni Ottanta dell'Ottocento, il presidente del consiglio Agostino Depretis uscì con uno slogan ad effetto: «Bisogna sventrare Napoli», ossia bisogna buttar giù un po' di case, strade, e quartieri per risolvere il «problema» Napoli. Tale rifondazione urbanistica passò alla storia col nome di «Risanamento». Abbatté 56 fondaci, 422 isolati, 144 strade, 17.000 abitazioni e 64 chiese. Matilde Serao, accesa giornalista del Mattino scrisse a tal proposito un pamphlet intitolato «Il ventre di Napoli» col quale dimostrò che il problema di Napoli non consisteva solo nello «sventrare», ma era fatto di lavoro, educazione morale, sociale ed economica.
Oggi come ieri. Pensare di «civilizzare» un quartiere, che da almeno cinque secoli vive sul contrabbando, la prostituzione, l'usura, la ricettazione, demolendo solo i suoi bassi è azione illusoria e perfino offensiva della nostra intelligenza. Secondigliano, dove ci si ammazza ad ogni sorgere del sole, di bassi ne ha pochi, e ancor meno il Vomero, dove tuttavia scippi e rapine sono all'ordine del giorno.
La delinquenza, la camorra, sono fenomeni anzitutto culturali; anziché abbattere i bassi bisognerebbe costruire scuole. Educare, ecco il vero risanamento di Napoli.

Il basso da demolire, come ai tempi della Serao è l'ignoranza.

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