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"Ilaria Alpi non doveva morire", deposizione choc può riaprire il caso

L'imprenditore Giancarlo Marocchino che da tempo vive e lavora a Mogadiscio e che aiutò la famiglia a recuperare i corpi: «Il commando di somali armati, che a bordo di una Land Rover tagliò loro la strada, non si aspettava la reazione della guardia del corpo dei due italiani che fece subito fuoco»

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi a Mogadiscio 17 anni fa, dovevano essere rapinati o sequestrati. Ma il commando di somali armati, che a bordo di una Land Rover tagliò loro la strada, «non si aspettava la reazione della guardia del corpo dei due italiani che fece subito fuoco con un fucile provocando così la reazione di un miliziano che scese a terra e sparò una raffica di mitra». Lo ha detto in tribunale, confermando dichiarazioni già rese alla Commissione parlamentare, l'imprenditore Giancarlo Marocchino che da tempo vive e lavora a Mogadiscio e che il 20 marzo del '94, pochi minuti dopo l'agguato costato la vita all'inviata del Tg3 e al suo operatore, arrivò con i suoi uomini per prestare i primi, inutili, soccorsi. Citato come teste nel processo per calunnia a carico di Alì Rage Ahmed, detto Gelle, principale accusatore del somalo Hashi Omar Hassan, unico condannato per questa vicenda, Marocchino ha negato con forza di aver avuto a che fare con quel duplice omicidio: «Sono tutte bugie e tutte fandonie quelle che mi attribuiscono il ruolo di organizzatore o di mandante. Maledetto quel giorno in cui, avvisato da un uomo della vigilanza dell'hotel Saafi, raggiunsi l'auto di Ilaria crivellata di colpi. Ma se la signora Alpi ancora oggi può portare due fiori alla tomba della figlia, il merito è mio perché riuscii a recuperare i due corpi (che, in caso contrario, non so proprio che fine avrebbero potuto fare) e a portarli al Porto Vecchio. Ebbi la sensazione che Ilaria respirasse ancora ma poi il colonnello medico mi disse poco dopo che era deceduta». Chiarendo quanto già spiegato nel 2005 alla commissione presieduta da Carlo Taormina, Marocchino ha detto che, qualche anno dopo il delitto, grazie a uno dei suoi uomini di scorta, ebbe modo di parlare con un somalo che avrebbe fatto parte del gruppo degli aggressori. «Questo uomo, alto e magro - ha ricordato Marocchino - mi disse che gli aggressori, una decina circa, prima di tagliare la strada alla Toyota dei due italiani, non sapevano se fare una rapina o compiere un sequestro di persona. In ogni caso, il gruppo non pensava che a fare fuoco fossero prima quelli dell'auto della Alpi. Io non conosco il nome di questo uomo e, anche se lo sapessi, non lo direi...

A Mogadiscio vivo con la mia famiglia, ho il mio lavoro e penso di aver già pagato caro tutta questa situazione: mi hanno bruciato un magazzino, mi hanno saccheggiato la casa, mi hanno fatto saltare un'auto con una bomba, mi hanno sparato alle gambe».

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