Non si è ancora spenta l’eco dei Centochiodi cinematografici piantati da Olmi nei libri che arriva in teatro, appiccato da Ronconi, il rogo di carta di Fahrenheit 451. Quarant’anni fa, quando il testo di Ray Bradbury fu scritto, si paventava la fine della cultura, della storia, della memoria, per colpa di un eterno presente asettico e televisivo; quarant’anni dopo si accarezza l’idea di farla finita con la cultura, la storia, la memoria, in virtù di un amore universale che, rendendole superflue, le annulla. «Un libro non letto è un libro che non esiste» era la lugubre verità del primo. «Un libro letto non vale un caffè con un amico» è la provocatoria verità del secondo.
Sono metafore, si dirà, grida d’allarme lanciate da un lato contro il pericolo di un mondo manipolato, dall’altro nella convinzione che, divenuto feticcio, il simulacro della cultura domini il mondo. Eppure, un sottile filo rosso lega fra loro due opzioni apparentemente contrapposte. I libri sono pericolosi perché fanno pensare. I libri sono pericolosi perché ci impediscono di amare. In entrambi i casi, vanno eliminati. Anima religiosa, Olmi lascerebbe bruciare l’intera Biblioteca vaticana pur di salvare una vita umana, laddove il «milite del fuoco» immaginato da Bradbury a quella avrebbe dato fuoco per meglio possedere quest’ultima. Le intenzioni sono antitetiche, ma identico è il deserto che attende il sopravvissuto.
Il film di Olmi vagheggia un’età atemporale, o meglio un’età dove il tempo si fermi e non scorra più, perché ogni futuro che si preannuncia è peggiore del presente in cui si vive, del passato cui si resta ancorati. Se non c’è più storia, non si ha però nemmeno bisogno di memoria, e quindi si può essere limitandosi ad esistere. Il passo successivo è che si può essere senza per questo esistere.
Sotto questo aspetto, la metafora di Fahrenheit 451 è ancora più semplice: senza memoria, non c’è più storia, e chi controlla il passato gestisce il futuro. Sfuggiva al suo autore che per gestire ciò che è stato non è necessario abolirlo: basta favorirne l’oblio, la dimenticanza, la sostanziale interscambiabilità, lavorare per un unico, lunghissimo presente in cui lo ieri si stinge nell’oggi e l’oggi è già un domani di cui non ci si rende conto.
Dal romanzo di Ray Bradbury François Truffaut ricavò negli anni Sessanta il film omonimo: Truffaut era uno che amava i libri e quindi, lo diciamo sommessamente, amava la vita, e non è un caso che il suo «milite del fuoco» passasse al nemico, divenisse un «uomo-libro», per amore di una donna. Eppure, non era allo scrittore di fantascienza americano che il regista francese avrebbe dovuto rivolgersi, ma a un segaligno inglese che in un romanzo scritto negli anni Quaranta, 1984, aveva previsto quello che in realtà sarebbe successo. Non c’era bisogno di bruciare i libri, bastava riscriverli, non c’era bisogno di odiare il prossimo, bastava amarlo sino alla morte. La neolingua e il bispensiero, ecco che cosa attendeva l’umanità prossima ventura. «Il Ministero della Pace si occupa della guerra, il Ministero della Verità, della menzogna, il Ministero dell’Amore, della tortura». Ovvero, «la neolingua consiste nel semplificare al massimo la possibilità del pensiero. Giunti che saremo alla fine, renderemo il delitto di pensiero, ovvero lo psicoreato, del tutto impossibile perché non ci saranno più parole per esprimerlo».
Il film di Olmi è un esempio inconsapevole di bispensiero e di neolingua. La semplicità, ci dice, è profondità, la natura è meglio della cultura. Le religioni non hanno mai salvato il mondo, figuriamoci i libri... Facciamo a meno delle une e degli altri, amiamoci, saremo felici e così lo salveremo. Impregnato di cristianità, Olmi sogna un mondo in cui le relazioni fra gli esseri umani e il Signore di tutte le cose non abbiano altra mediazione che il cuore. Impregnato di laicità Bradbury vedeva nel sapere l’unica fonte possibile del conoscere, e quindi del vivere. Come ogni pensiero manicheo, tertium non datur, eppure sappiamo benissimo che ci sono ignoranti sapienti e che per amore si può uccidere, soggiogare e morire. Curiosamente, tuttavia, il cristianeismo dell’uno e il laicismo dell’altro convengono su un punto. Inchiodando i libri, Olmi vuole che il verbo torni a essere carne, testimonianza palpitante di un’esperienza vissuta, e non letta, non orecchiata. Nel dar vita agli uomini-libro, che si sono ribattezzati l’un l’altro con il nome del romanzo imparato a memoria, Karamazov, Guerra e pace, Orlando furioso, anche Bradbury opera la stessa trasformazione, la parola scritta si fa azione, letteralmente si incarna.
Sembra che Michael Cimino abbia pronta per il cinema la sceneggiatura di La condizione umana di André Malraux. Cimino è un regista pazzo e visionario, grande nei successi come nei fallimenti, ma se riuscisse a trasformarla in film, forse avremmo non la risposta, impossibile, al tema che Olmi e Bradbury hanno a loro modo trattato, ma un’altra chiave di possibile lettura. Perché la condizione umana non è altro che la morte e per secoli la nostra finitezza ha lottato con questa sua condanna, ha cercato nella insensatezza del vivere un senso dell’esistere, ha costruito cattedrali, esplorato territori sconosciuti, eretto altari, scritto e dipinto capolavori, sempre e comunque con l’idea di lasciare un segno che sconfiggesse il tempo, che si incarnasse anch’esso in parole e opere. Una lotta titanica destinata comunque alla sconfitta, pessimista eppure meravigliosamente attiva, il canto orgoglioso e disperato dell’essere umano di fronte a sé stesso e all’ignoto che lo circonda.
Perché forse, e più semplicemente, il problema non è di salvare il mondo, ma umanamente di limitarsi a viverlo, a viverci, con tutti i possibili e immaginabili atti di vigliaccheria e di eroismo, di bontà e di cattiveria, vittorie e cadute. Semplici uomini, appunto, né angeli né demoni. Diceva il Dedalus di James Joyce: «Vivere, errare, cadere, trionfare, ricreare la vita dalla vita».
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