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Ora la Londra dei potenti deve sorridere a Farage

È da anni l'emblema del politicamente scorretto. Ma i leader che l'hanno bollato come "impresentabile" lo corteggiano: perché ha capito che cosa vuole la gente

Ora la Londra dei potenti deve sorridere a Farage

Terremoto o controrivoluzione? Per la prima volta da quasi un secolo, le elezioni nazionali in Gran Bretagna sono state vinte da un partito che non fosse o i Conservatori o i Laburisti, i due dioscuri dell'establishment politico britannico che si alternano a Downing St dai tempi della pace in seguito alla Prima guerra mondiale.
A differenza degli italiani, che dall'inizio della Seconda repubblica si sono abituati a votare per nuove forze nate nell'«anti-politica», per i vari popoli britannici è una novità straordinaria costatare le elezioni europee dominate da un partito fino a poco tempo fa considerato irrilevante e assurdo, capitanato da un leader maverick, Nigel Farage, che rifiuta quasi tutte le regole - scritte e implicite - dell'augusto agone politico del Regno Unito.

E per quanto si trattasse di un risultato annunciato (almeno secondo i sondaggi), da alcuni mesi l'intero apparato politico-mediatico-culturale britannico si trova in uno stato di shock dal quale non accenna ancora riprendersi.

Per la controversa opinionista Melanie Phillips (ex femminista di sinistra che ora critica le sue ex compagne e compagni dalla destra «sociale», e per questo è odiatissima nei salotti «giusti» londinesi) sul Times si trattava più di una controrivoluzione da parte di un settore del popolo che da troppo tempo si sente ignorato e persino sbeffeggiato dai grandi partiti tradizionali (compreso la terza forza centrista gli alto borghesi radical chic Lib Dems), dalla Bbc e dagli altri media. «In seguito alla caduta del Comunismo anche nel Regno Unito c'è stato un consenso non solo intorno ai grossi temi politici e economici, ma ormai su tutti i temi politically correct - femminismo, immigrazione, diritti delle minoranze di ogni genere - che ormai è traversale: chi crede ad esempio nei valori cristiani di una volta, nel matrimonio all'antica, o nel rispetto per la cultura nazionale tradizionale si sente etichettato come razzista, omofobo, misogino o reazionario e questo non gli sta bene».

Nelle ultime settimane sia il premier di centro-destra liberal David Cameron che il leader dell'opposizione di sinistra Ed Miliband - nonché il leader Lib Dem, il vice premier Nick Clegg - hanno cercato di modificare le loro vedute social liberal, a favore dell'immigrazione, e (con qualche variazione di enfasi) di consenso con l'Unione europea, per venire incontro a quegli elettori - ormai verso il 30% - che rivogliono l'Inghilterra di una volta.
Non solo i Tories temono un'emorragia del loro bacino social-conservative e anti-immigrazione, anti-Euro verso il partito di Nigel Farage (che solo un paio di anni fa lo stesso Cameron definì con una certa spocchia «formato da pazzoidi, paranoici e gente impresentabile»), ma anche i Laburisti, di cui la componente elettorale working class della vecchia generazione non vede di buon occhio tutte le riforme politically correct volute dai loro leader borghesi radical chic. Ben conscio degli umori neri della base Very Old Labour, il leader socialista Miliband ha persino sfidato i suoi sostenitori radical chic nel sentenziare che «Farage non è un razzista», come Cameron ha detto «Farage è comunque un democratico».

Oltre questo tiepido sdoganamento, c'è chi predica persino il patto elettorale: come insiste l'eurodeputato e fine intellettuale, il Tory Daniel Hannan, «se noi tories non ci mettiamo d'accordo con l'Ukip in vista delle elezioni generali di maggio prossimo, non ci sarà mai il referendum promesso da Cameron, e saremo in mano ai laburisti per sempre».

Musica per le orecchie di Nigel Farage, che sta vivendo la sua «primavera araba sul Tamigi», in attesa che gli spocchiosi liberal vadano da lui in ginocchio: persino la Bbc, che per anni non l'ha mai voluto riconoscere come politico accettabile, ormai lo invita a tutti i dibattiti politici.

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