Anche Napolitano ora è stufo: «Urgente riformare la giustizia»

RomaC'è un giudice a Palermo, anzi c'è un'intera procura, che «interpreta in modo difforme le norme vigenti». Ci sono dei pm, titolari del delicato dossier sulla trattativa Stato-mafia, che hanno «condotto le indagini in maniera travagliata». E c'è un demi monde politico-giudiziario-giornalistico che ha «tentato di mescolare» il conflitto di attribuzione davanti alla Consulta «con l'inchiesta, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze» da parte del Quirinale. E adesso c'è un capo dello Stato che contrattacca, in tre mosse. Prima dà alle stampe il suo carteggio con Loris D'Ambrosio. Poi rende pubbliche le accuse del suo consigliere giuridico alla procura siciliana: «I contrasti sui procedimenti non giovano al loro buon andamento». Infine, parlando a Scandicci, prende di petto l'intera categoria: «I magistrati devono essere imparziali, la riforma è diventata urgente».
No, non chiamatelo Re Giorgio. Io sono il presidente, spiega Napolitano, «ho giurato davanti al Parlamento, ho giurato di rispettare la Costituzione e perciò ero obbligato a sollevare il conflitto di attribuzione di poteri» con la procura di Palermo. Non c'era altra scelta, sostiene, dopo che i pm lo avevano intercettato, perché bisogna «puntualizzare le norme a tutela del libero svolgimento delle funzioni» del capo dello Stato. Non c'era altra scelta eppure si è cercato di «mischiare le acque», si lamenta, e si farlo impantanare «nelle zona grigia» tra mafia e legalità. «Sono io il primo a volere la verità, la verità autentica sulla strage di via D'Amelio, lo considero un imperativo e un dovere comune». Fare di tutto un calderone invece serve solo a depistare.
Lo pensava anche Loris D'Ambrosio, intercettato prima del presidente, accusato dal Fatto e da Di Pietro di voler aiutare Nicola Mancino - ministro dell'Interno all'epoca dei fatti e rinviato a giudizio - , morto d'infarto a luglio, mentre infuriava la polemica. Il consigliere giuridico di Napolitano voleva rimettere il mandato. «Non ho mai fatto patti con il diavolo - scriveva il 13 giugno al capo dello Stato - per impedire che si raggiungano verità scomode del terzo livello. Ma, come il procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno tutte le autorità giudiziarie coinvolte nei procedimenti sulle stragi di mafia, io non mai esercitato pressioni o ingerenze per favorire il senatore Mancino». Non è della stessa idea l'autore di un editoriale «calunnioso», Marco Travaglio, che «è arrivato a inserire me, che non accetto teoremi prestabiliti, nella zona grigia di chi vuole ostacolare un pugno di pubblici ministeri onesti». E invece, concludeva D'Ambrosio, «io suggerivo strategie unitarie, convergenti e condivise, con il ripudio di metodi investigativi non rigorosi per delle indagini complesse». Conclusione: «Non conosco il contenuto delle sue telefonate intercettate, ma d'ora in avanti ogni più innocente espressione sarà interpretata con cattiveria e inquietante malvagità».
Il giorno dopo, questa la risposta di Napolitano: «L'affetto e la stima nei suoi confronti non sono nemmeno sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me. Ce ne saranno altri di comportamenti perversi, di esercizi distorti del proprio ruolo, di chi non esiterà a prendere a bersaglio me attraverso lei». Tutto il carteggio è stato pubblicato insieme ai sette anni di discorsi del presidente davanti al Csm e distribuito tre giorni dopo il deposito della memoria della procura di Palermo alla Consulta, lì dove gli avvocati dei pm dipingono il capo dello stato come un monarca intoccabile peggio del re di Spagna.

Il 4 dicembre la Corte Costituzionale esaminerà il caso. Intanto Napolitano chiede una riforma della giustizia. «Ce n'è un'imperiosa necessità. La politica e la magistratura non possono continuare ad esprimersi come mondi ostili e guidati dal sospetto reciproco».

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