Bersani vuole governare l'Italia ma non controlla il suo partito

«P erché, se gli italiani scelgono soluzioni avventurose o disperate, gli altri dovrebbero scommettere su di noi?», si è chiesto ieri Pier Luigi Bersani in un passaggio particolarmente enfatico della sua relazione all'Assemblea nazionale del Pd. L'Assemblea non ha risposto - impegnata com'era a litigare furiosamente su primarie e diritti delle coppie omosessuali - ma la domanda è legittima. Perché, paradossalmente, oggi il problema numero uno di Bersani non è vincere le elezioni, ma governare l'Italia. Non è raccogliere i voti che oggi i sondaggi entusiastici attribuiscono al centrosinistra, ma rendersi credibile agli occhi dell'Europa, dei mercati, delle istituzioni finanziarie e, in Italia, del Quirinale.
Vale dunque la pena rileggere per intero le parole del segretario del Pd. Vorrebbero essere dirette a Grillo e a Berlusconi (senza ma nominarli), ma possono tranquillamente riferirsi anche, e forse soprattutto, proprio a Bersani: de te fabula narratur... «Perché mai - si è dunque chiesto Bersani -, non dico uno speculatore, ma un onesto risparmiatore del mondo dovrebbe prestarci soldi se in Italia prendesse voti chi dice (un giorno sì e l'altro no) che bisogna uscire dall'Euro, o se prendesse voti chi dice che non dobbiamo pagare i debiti?». E così ha proseguito, in un crescendo di domande retoriche: «Perché mai quel risparmiatore dovrebbe aver fiducia nell'Italia se l'Italia di nuovo scegliesse la strada dell'eccezionalismo, di soluzioni sconosciute alle democrazie del mondo? Liste di fantasia, partiti per procura, leadership invisibili e senza controllo o (sono notizie di questi giorni) agghiaccianti ritorni?».
Lasciamo perdere l'«agghiacciante ritorno», riferito a Berlusconi in un evidente ritorno, questo sì agghiacciante, di antiberlusconismo duro e puro, cioè di quel metodo sciagurato che rifiuta di prendere atto dell'esistenza dell'avversario trasformandolo in un demonio o in uno scherzo: lasciamo perdere per carità di patria, perché quando Berlusconi, nell'estate del 1993, progettava ad Arcore la sua discesa in campo, Bersani era già presidente dell'Emilia Romagna. Tre anni dopo sarebbe diventato ministro dell'Industria nel primo governo Prodi. La politica italiana è un eterno ritorno, e in questo il Pci-Pds-Ds-Pd è un campione: tant'è che Rosy Bindi (che era già europarlamentare prima della caduta del Muro) si è rifiutata ieri di mettere al voto l'ordine del giorno che chiede il rispetto dello statuto e il tetto ai tre mandati parlamentari.
Lasciamo dunque perdere la disputa patetica sul «vecchio» e il «nuovo» e riflettiamo invece su quel fenomeno - l'«eccezionalismo» - che Bersani indica come causa della sfiducia dei mercati nel nostro Paese: «liste di fantasia, partiti per procura, leadership invisibili e senza controllo...». Sta parlando di Grillo, del centrodestra o della propria sgangherata politica delle alleanze? L'eccezionalismo denunciato da Bersani è in realtà la fotografia esatta del centrosinistra italiano: che è «eccezionale», e unico al mondo, perché si ostina a tenere insieme sinistra radicale e riformisti, moderati e gruppettari, seguaci della Fiom e innamorati di Monti. In nessun altro paese è così: i socialdemocratici tedeschi non farebbero mai un'alleanza con la Linke, in Grecia il Pasok è un avversario dichiarato di Syriza, né il tanto lodato Hollande si è sognato di chiudere un accordo con Mélenchon, il candidato della sinistra radicale. Soltanto in Italia il Pd insiste in «soluzioni sconosciute alle democrazia del mondo», inventando alleanze che non possono stare insieme e che, infatti, rovinosamente crollano alla prova del governo. Se c'è un buon motivo perché i mercati non si fidino dell'Italia, questo è senz'altro la prospettiva di una maggioranza che vada da Casini a Vendola, e magari anche a Di Pietro, in una replica dell'armata Brancaleone ulivista del 2006, destinata inesorabilmente a saltare per aria nel giro di pochi mesi.
Se poi si fa il censimento delle posizioni politiche interne al Pd, ci si accorge che se pure il partito di Bersani si presentasse da solo alle elezioni e le vincesse, difficilmente sarebbe in grado di formare un governo. Il giudizio sul governo Monti spazia da chi, come Matteo Orfini, dichiara «mai più col professore», ad un nutrito gruppo di parlamentari lettiani e veltroniani che indicano invece nell'«agenda Monti» l'unico programma possibile del futuro governo di centrosinistra. Se il responsabile economico del Pd, Fassina, accusa il governo di «macelleria sociale» e vorrebbe ogni volta sfilare in corteo con la Fiom, D'Alema ha definito Monti un «socialista europeo».

Ci sono quelli che vogliono l'alleanza soltanto con Casini e quelli che la aborrono, quelli che vorrebbero Vendola ma non Di Pietro, quelli che senza Di Pietro non sanno che fare, quelli che chiedono a Repubblica di fare la lista civica e quelli che le sbarrano la strada... È proprio vero: «Perché, se gli italiani scelgono soluzioni avventurose o disperate, gli altri dovrebbero scommettere su di noi?».

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