Milano - E con un colpo di mano Roberto Maroni si riprende la Lega. Tutta e senza più distinzioni. Senza i delicati equilibri da cercare tra veneti e lombardi, senza il ballottaggio tra i giovani delfini Matteo Salvini e Flavio Tosi già designati dallo stesso Maroni a succedergli e probabilmente anche senza Umberto Bossi fatto sloggiare anche dal pantheon leghista in cui era stato confinato a patto che se ne stesse buono. Perché è stata proprio l'assenza del Senatùr a far notizia all'assemblea degli eletti convocata ieri in un albergone di Milano. Tanto che alla chiusura è proprio Maroni a uscirsene con un «chiederò la giustificazione a tutti quelli che oggi non c'erano, non c'è motivo di non partecipare a una riunione così importante». Forse un non troppo involontario assist ai giornalisti che non hanno potuto non domandare di Bossi. «Chiederò la giustificazione anche a lui, per me sono tutti uguali». E forse per la prima volta qualcuno, come il segretario emiliano Fabio Rainieri, vuole addirittura l'espulsione di Bossi («Dopo la malattia non è più stato in grado di gestire il movimento, in balia dei cattivi consiglieri. Ora dice robe che non stanno né in cielo, né in terra, tipo definire Maroni un traditore»). E Roberto Calderoli legge una lettera inviata ad entrambi dove dice che così «non si può andare avanti». E avverte il Senatùr che la pazienza è finita.
E allora Maroni annuncia che ora nella Lega «si è tirata una riga e da oggi si cambia musica». La scoppola alle amministrative ha risvegliato l'istinto di sopravvivenza. «Non saranno più tollerate azioni in contrasto col movimento e lo statuto - ha detto ieri Maroni -. Queste cose ci danneggiano». Poi racconta che gli è stato chiesto di rimanere segretario. Quanto basta nell'ultimo partito rimasto a organizzazione e disciplina leninista, per giustificare Maroni a prolungarsi una segreteria che aveva messo a disposizione nel congresso da celebrare a febbraio. «Diventando più cattivo, come mi hanno chiesto per garantire l'unità». Perché «un movimento che litiga e non è unito, poi non prende voti».
Una retromarcia non da poco. Parole che contrastano con quanto più volte detto dal leader del Carroccio nell'era post Bossi che aveva spiegato come dopo la sua elezione a governatore della Lombardia, fosse inevitabile un'accelerazione della transizione verso una leadership più giovane. Con Salvini e Tosi che, fatti salire fino al prestigioso ruolo di vice segretari, erano stati investiti di una successione che a questo punto è rinviata sine die. Nessuna polemica di Tosi. «Sono perfettamente d'accordo - ha spiegato uscendo dalla sala -. Io l'avevo sempre detto». E poco prima a Omnibus su La7 era stato altrettanto chiaro. «Chi sta vicino a Bossi e magari ha anche approfittato della sua malattia portando la Lega a quelle situazioni pesanti che sono successe un anno fa, adesso dovrebbe dirgli che non è nell'interesse del movimento e quindi neanche nel suo, come padre fondatore, prendere certe posizioni».
E ora, sparito il congresso di febbraio, nell'agenda leghista compare un'assemblea federale convocata il 21 e 22 settembre a Venezia per «discutere azioni concrete per rendere più attrattivo il nostro progetto di macroregione». Perché secondo Maroni è proprio dall'unione delle Regioni del Nord che può partire la crociata per riconquistare elettori. «E con il grillismo ormai in crisi, noi quei voti ce li prendiamo tutti». Poi l'attacco al governo. «Ho letto il cosiddetto decreto del fare, tanto fumo e poco arrosto.
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