Il nostro grande Mario Cervi, commentando ieri l'iniziativa del Giornale, cioè una serie di incontri fra personaggi che hanno qualcosa da dire, in programma a Sanremo da domani (durata sei giorni) su temi di attualità, ha già spiegato da par suo il significato di «controcorrente», termine ispiratore del lungo convegno. Pertanto non è il caso che io faccia altrettanto, sicuro che esprimerei maluccio gli stessi concetti esposti da lui benissimo.
Mi limiterò ad alcune considerazioni sul vizio degli italiani, specialmente quelli che desiderano essere alla moda, non solo di trovare un posticino sul carro del vincitore, ma anche di entrare - gratis - nell'élite degli intelligenti o, meglio ancora, degli intellettuali. La prima regola cui si attengono coloro i quali seguono la corrente di successo è fare di tutto per apparire colti. Nell'intento adottano la tecnica dei cani. I quali, quando vogliono attirare l'attenzione, agitano la coda. Poiché i conformisti sono privi di coda, e non possono quindi agitarla, per mettersi in mostra agitano qualcosa d'altro: per esempio la lingua. Parlano, parlano di cultura scimmiottando i soloni schierati a sinistra, di cui ripetono a memoria tutto l'armamentario di sciocchezze (spacciate per verità indiscutibili), banalità, luoghi comuni e tic verbali.
La fesseria più ricorrente nei salotti è questa: «La destra è ignorante, evade le tasse, è fissata col sesso, odia gli omosessuali, è razzista, disprezza la letteratura, la filosofia, la magistratura, il cinema e la satira». Recentemente il Quirinale ha nominato quattro senatori a vita: Cattaneo, Piano, Rubbia e Abbado. E qualche conservatore ha osservato come non uno di costoro sia politicamente asettico. Immediata la risposta dei progressisti: «Per forza, i cervelli sono dalla nostra parte; dalla vostra non c'è nessuno degno di sedere ad honorem a Palazzo Madama». Falso. Falsissimo. Albertazzi non è stato preso sul serio pur essendo un fuoriclasse; Muti, scartato; Morricone, ignorato; la ricercatrice Benigni (Istituto Negri), snobbata; Pannella, idem. Il problema è che se sei di sinistra hai la patente di illuminato; se non lo sei, hai quella di indegno.
Alcuni anni orsono organizzai una raccolta di firme in favore di Oriana Fallaci senatrice a vita; se ne raccolsero 100mila in una settimana, ma l'allora presidente della Repubblica, Ciampi, fece spallucce, incurante del fatto acclarato che la scrittrice, indubitabilmente, fosse (lo è anche da morta) la donna italiana più famosa e apprezzata nel mondo. Perché fu scartata? Oriana era anticonformista per definizione. Una penna solitaria. Un talento puro. Motivo per cui era detestata dai compagni, tra l'altro invidiosi dei suoi trionfi in libreria. Fu lei a sdoganare le donne nel giornalismo patrio. Questo è un dato. Ma non importava. Ciampi preferì nominare Emilio Colombo, per citarne uno inossidabile.
Non c'è nulla da fare. Flaubert, oltre un secolo fa, pubblicò il Dizionario dei luoghi comuni. Un capolavoro ancora valido: segno che l'umanità (e le sue debolezze) è immutata; per sopravvivere è sempre pronta a rendersi ridicola, accodandosi a presunti maestri di pensiero che, in realtà, sono maestri sì, ma di opportunismo. La gente ha istinti animaleschi, si unisce al branco per esserne protetta.
Vent'anni fa, quando la Lega stava prendendo piede, i borghesucci lombardi non osavano manifestare simpatia per Bossi. Anzi, lo criticavano aspramente con le solite frasi liquidatorie: è un buzzurro, volgare, maleducato; e poi come si fa a votare un tipaccio del genere? Una sera fui invitato a cena da un gruppo di professionisti e imprenditori del Nord. Quando constatai che le bottiglie di vino erano ormai semivuote, introdussi a bella posta l'argomento Carroccio. Sulle prime sollevai un'ondata di indignazione. I giudizi negativi sul movimento politico bossiano si sprecarono. Con cautela, dissi qualche parola in difesa dei padani: «Però, in fondo, questi nordisti qualche ragione ce l'hanno. Non condivido il loro modo di fare, tuttavia riconosco di essere d'accordo su alcuni punti del programma leghista».
Alcuni commensali annuirono. Altri ammisero di essere interessati al nuovo fenomeno politico. L'ambiente si caricò. E dopo dieci minuti la tavolata era talmente riscaldata che mi aspettavo soltanto spuntassero le bandiere di Alberto da Giussano. L'ipocrisia è sorella gemella del conformismo. All'epoca della Dc non c'era anima che confessasse di votare scudocrociato, ma 35-36 connazionali su 100 - e mi baso sui risultati elettorali dell'epoca - non appena entrati in cabina si guardavano intorno e, sicuri di non essere notati, tracciavano la croce sul simbolo democratico cristiano. Probabilmente, facendo il gesto dell'ombrello.
Lo stesso è accaduto e accade per Berlusconi. Raro incontrare chi riveli di avergli dato la preferenza, ma a spoglio avvenuto scopri che il Pdl se non è il primo è il secondo partito.
Ancora a proposito di luoghi comuni e ignoranza camuffata da cultura. Negli anni Settanta chi dissentiva dalla sinistra imperante si sentiva dare del fascista. Negli anni Ottanta e Novanta, del qualunquista e ora del populista. Tre insulti che hanno assunto il medesimo valore semantico. Quando un progressista non sa come ribattere a un avversario, lo zittisce appiccicandogli l'etichetta di populista; in passato avrebbe scelto quella di fascista o qualunquista. Cambiano i vocaboli, ma il senso è sempre lo stesso: l'interlocutore non va ascoltato, ma delegittimato.
Da notare che il populismo non ha nulla da spartire col centrodestra, visto che fu un
movimento nato in Russia nel diciannovesimo secolo, anticipatore del socialismo e del comunismo, e adesso espropriato dei suoi valori originari dalla sinistra che - incolta qual è - li affibbia a chi non li ha mai condivisi.
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