Chi l'avrebbe mai detto che sarebbe stata proprio la bibbia degli affari a lanciare il sasso? E invece il dibattito da ombrellone sul rapporto tra ore di lavoro e felicità è partito proprio dalle austere colonne del «Financial Times». Si vede che è agosto anche dietro le cattedre: sono stati infatti due professoroni come i fratelli Robert ed Edward Skidelsky (l'uno economista all'università di Warwick, l'altro filosofo e sociologo a Exeter) a mettere nero su bianco il dubbio che la nostra società non sia più capace di rallentare. Ed è un dubbio ben supportato da argomenti accademici, vista la fonte. I due docenti chiamano in causa le teorie marxiste sullo sviluppo del capitalismo che sarebbe passato attraverso l'età dell'accumulo, l'età del consumo e infine quella dell'abbondanza, in cui la società, gonfia di benessere, avrebbe iniziato a scambiare ore di lavoro con ore di piacere, ponendo fine all'espansione economica. I due prof si prendono anche la briga di bacchettare un nume dell'economia come Keynes ricordando la sue previsione sbagliata che in questa epoca avremmo lavorato solo 15 ore a settimana. «I Paesi in via di sviluppo sono ancora nella fase dell'accumulo, l'Occidente invece è intrappolato in quella del consumo», dicono gli Skidelsky. Gli economisti classici, dicono i due docenti, hanno sottovalutato l'insaziabilità e le disuguaglianze, che spingono comunque chi ha di meno a sgobbare per ambire a traguardi maggiori.
La risposta arriva dalle stesse pagine a firma dell'editorialista Sebastian Mallaby che la butta sul personale, ricordando «perché lavoro durante le mie vacanze». Ne fa un fatto di soddisfazione personale: «Stavo giocando a carte con i miei figli, ma dopo aver letto il pezzo degli Skidelsky mi è venuta voglia di aprire il computer. Ma non è un sacrificio: lavoro perché mi piace». Ma Mallaby non teme affatto di essere tacciato di dipendenza dal lavoro. A sostegno della sua tendenza allo stakanovismo cita un bel po' di argomenti storici.
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