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Fassina, l'arcinemico di Matteo che ci mette sempre la faccia

Il viceministro Pd adora le cause perse: attacca tutti da Maradona al suo prossimo segretario

Fassina, l'arcinemico di Matteo che ci mette sempre la faccia

Se deve esporsi, Stefano Fassina non esita. Quando gli salta la mosca al naso, e gli succede spesso, il responsabile economico del Pd e viceministro dell'Economia, diventa piantagrane e non guarda in faccia nessuno. Non è di quei politici biforcuti che tacciono per tenersi aperta ogni porta e cambiano idea o schieramento come le serpi la pelle.

Il quarantasettenne Fassina è limpidamente un proletario. È figlio di povera gente che è riuscita a pagargli gli studi fino a laurearlo in Economia e che resta legato, anche oggi che è al governo, all'ambiente modesto da cui proviene e vorrebbe tanto togliere i soldi dalle tasche dei borghesi per darli alle moltitudini piegate da secoli di patimenti cui le condanna, come la maledizione di un dio funesto, un capitalismo giunto all'ultimo stadio e che Fassina, se lo lasciano fare, spazzerà via con una gamma di patrimoniali che ha già allo studio e che non daranno scampo a chiunque abbia redditi superiori alla sopravvivenza. Stefano è un vero comunista. Lo è nel cuore prima ancora che nell'ideologia. Un avversario tenace del liberismo e del centrodestra. Ma non è subdolo. Questa schiettezza che ce lo rende simpatico.

Di Fassina, fateci caso, abbiamo sempre sentito parlare per le polemiche in cui si caccia. Ad attaccare briga è sempre lui. Se l'opportunismo di Matteo Renzi gli dà ai nervi, lo definisce: «Un figlio di papà e un portaborse miracolato», beccandosi la replica: «Fassina non raccoglierebbe voti neppure dall'assemblea di condominio del suo palazzo». Giorni fa se l'è presa con l'idolo del pallone, Diego Maradona che, in tv da Fabio Fazio, aveva fatto il braccino a Equitalia. «Gesto da miserabili», ha commentato per primo, quando ancora echeggiava il risolino di Fazio e i battimani della platea di Che tempo che fa. E ha aggiunto: «Maradona farebbe bene a rispettare le leggi». Due settimane fa, ha attaccato, senza timori reverenziali il suo ministro, Fabrizio Saccomanni, mettendo a nudo un'incresciosa situazione al ministero dell'Economia. Fassina si è lamentato di non avere avuto voce in capitolo sulla legge di Stabilità di cui era addirittura il titolare del coordinamento e ha minacciato le dimissioni. È così venuta alla luce la frattura con Saccomanni che, diffidando delle idee del suo vice e del suo tiepido europeismo, gli nasconde le carte. È dovuto intervenire il premier per mettere pace e calmare la comprensibile ira del nostro marxista. Il quale, in fondo mite per natura, si è consolato con la promessa che potrà incidere sul provvedimento durante la discussione parlamentare.

Non era scontato che Letta jr riuscisse a placarlo. I due sono agli antipodi: europeista fino all'ottusità, Enrico; imbelvito contro i rigori merkeliani, Stefano. Su questo, litigano dai tempi del governo Monti. Quando un anno fa, Fassina sparò a zero sul Professore chiedendo con un'intervista al Foglio di mandarlo a quel paese, Letta - allora vicesegretario del Pd e montiano di ferro - sbottò: «Si è passato il segno». Fosse stato per lui lo avrebbe cacciato dall'incarico di responsabile economico del partito, perché con il suo sinistrismo alla Vendola, Camusso e compagnia, non teneva conto che nel guazzabuglio del Pd c'erano teste diverse: ex dc, liberal, ecc. Letta dovette però accontentarsi di fare il broncio, poiché Fassina era fiduciario dell'allora segretario Pierluigi Bersani il quale mai avrebbe tollerato che gli fosse torto un capello, essendo Stefano da lustri il suo pupillo.

Fassina orbita attorno a Bersani da vent'anni, poco dopo essersi laureato alla Bocconi, l'università della glassa meneghina, di cui fu rettore Mario Monti. Pierluigi e il suo compare Vincenzo Visco, l'ex Dracula del Fisco, lo adocchiarono, cooptandolo nel proprio think tank, Nens, dove, tra codici e alambicchi, si distillano tasse e tributi per chiunque possieda uno spillo. Quando furono certi che anche Stefano era vampiro come loro, lo nominarono direttore di Nens.

Essere nemico dei ricchi non ha però sottratto il povero Fassina alle ire della piazza di sinistra e da un lancio di monetine alla Craxi, sotto un diluvio di vaffa. Gli successe - e fu l'avventura peggiore della vita - il 22 aprile, giorno in cui il Parlamento rielesse Napolitano. Uscito da Montecitorio dopo il voto per una boccata d'aria, Stefano si trovò di fronte una frotta di grillini inviperiti che scandivano: «Rodotà, Rodotà». Lo avrebbero menato se trecento poliziotti non avessero fatto cordone. Urlando «schifoso», «buffone», lo accusavano, in quanto Pd, di avere seguito le indicazioni del Cav nel rivotare Napolitano. Nonostante fosse spaventato, Fassina tenne testa alla folla, facendo dignitosamente ritorno nel Palazzo senza accelerare il passo. Poi commentò: «È il frutto della cultura fascista di Grillo». C'era, invece, molto di comunista, di viola e di arancione. Ma lui, questo, non lo ammetterà mai. Una volta che gli fu chiesto se riuscisse a dirsi «anticomunista» se ne uscì con quanto di più stantio: «Il comunismo italiano ha contribuito a scrivere la costituzione più bella del mondo ed è stato decisivo per liberare l'Italia». Poi aggiunse: «Sono contrario alla parola “anti”. Non sono mai stato nemmeno antiberlusconiano e non ho mai creduto alla via giudiziaria per abbattere Berlusconi». Sarà, ma non ha mosso un dito per evitarlo. Un'altra volta disse: «Meglio farsi una canna che votare Pdl».

Stefano è di Nettuno, porticciolo a sud di Roma, di cui conserva l'inflessione ruspante. Il papà era falegname dell'Asl di Anzio e comunista. Lui si iscrisse al Pci, in seguito a ciò. Era da poco alla Bocconi, quando, letto un suo scritto (zoppicante?), un professore lo convocò e gli disse: «Sicuro, con il suo background familiare e culturale, di frequentare un corso tanto impegnativo? Non vorrebbe cambiare?». Offeso in proprio e per spirito di classe, Stefano si recò un'ora dopo a pagare la quota nella prima sezione comunista e inizio la militanza. Successivamente commentò: «Sono contro chi non capisce quanto sia rilevante concedere pari opportunità a chi non viene da famiglie privilegiate». Il suo medagliere gli dà ragione. Col primo governo Prodi (1996-1998) è stato consigliere di Ciampi al Tesoro. Con il Prodi II (2006-2008), fu chiamato da Visco alle Finanze per aiutarlo a riempirci di tasse. Nel mezzo, passò cinque anni a Washington, al Fondo monetario. A febbraio, ha debuttato in Parlamento.

Ancora prima della laurea, poco più che ventenne, il Nostro impalmò Rosaria e ne ebbe tre figli. Il maggiore ha oggi 24 anni, l'ultimo due. Segno che il matrimonio funziona.

Il che ci rallegra.

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