«I cinesi hanno un piano: conquistare il made in Italy»

RomaLuca Caprai, fondatore di Cruciani, marchio specializzato nella produzione di capi d'abbigliamento in cachemire, ora è «mister Braccialetto». Produce lenzuola, coperte, tovaglie, lingerie ma adesso il boom lo sta facendo con i bracciali in macramè: quattro milioni e mezzo di euro in soli cinque mesi. Appena tornato dalla Cina, al Giornale parla proprio di Cina e dei pericoli che corriamo: «Rischiamo di diventare una provincia cinese».
Sono pieni di soldi e ci vogliono compare?
«Ma certo. Pensi che un gruppo cinese di cui non posso fare il nome mi ha appena offerto 68 milioni di dollari per il marchio Cruciani».
Cioè cinquantacinque milioni di euro? Una valanga di quattrini...
«Gliel'ho detto pure io. Anzi, gliel'ho chiesto: “Perché così tanto?”».
Risposta?
«Ha voluto sapere quanto spendevo per produrre un braccialetto. Da 1 euro e 80, ai 3. Ha sorriso...».
E?
«Mi ha detto: “Vede, se io compro tutto e sposto l'intera produzione in Cina, avrei un costo di 15 centesimi a bracciale. Le sembra che io posso strapagare la sua azienda. In realtà me la ripago in tempi velocissimi”».
E non gliel'ha venduta?
«No perché la vendita avrebbe minato tutte le altre aziende di famiglia ma il dato è che si stanno comprando il mondo».
La fonte della loro ricchezza?
«Il costo del lavoro. Prenda un albergo: lo stipendio del personale oscilla tra 1/4 e 1/10 rispetto al nostro. E il prezzo della camera è più o meno uguale. Il proprietario dell'albergo cinese, pertanto, è infinitamente più ricco dell'albergatore italiano».
E fanno man bassa all'estero?
«Stanno portando in Cina quello che possono: case automobilistiche, brand di moda, tutto quello che possono acquistare».
Ma i loro prodotti sono di minore qualità...
«Non è vero. È un cliché. Noi italiani ci siamo cullati su questo falso ritornello».
Ma come? Non è sempre stato così?
«Lo era ma adesso non più. Le faccio un esempio che riguarda il mio settore: i cinesi fanno delle cuciture a mano, con ago e filo, di qualità sopraffina. In più, negli ultimi 20 anni, hanno investito senza limiti in tecnologia».
Allora siamo spacciati...
«Messi male, sì. Per un capo della medesima qualità, loro possono pagare un operaio 200 dollari al mese; noi, in provincia e in sud Italia, dai 2 ai 3mila euro».
Battaglia persa, quindi?
«Sì. Ci salva il fatto che i cinesi puntano ancora alla quantità e non alla qualità. Preferiscono fare 1 miliardo di pezzi così così piuttosto che 10mila benissimo. Ma sono assolutamente in grado di farli».
Su cosa possiamo puntare, allora?
«Sul gusto, sulla moda, sull'arredamento. Ma non dobbiamo aspettare che arrivino dall'estero a comprarci. Faremmo una brutta fine».
Vede questo rischio?
«Ma certo. Guardi Valentino: una maison del lusso acquistata dallo sceicco del Qatar. Abbiamo perso un pezzo di Italia. Rischiamo di diventare provincia di cinesi, arabi e tedeschi».
Prima mossa per evitarlo?
«Esser più competitivi. Il lavoro da noi ha un costo abnorme a fronte di buste paga scandalosamente basse per il singolo lavoratore».
Poi?
«Investire in ricerca e reagire».
Anche gli industriali devono cambiare marcia?
«Quando avevo 15 anni sentivo che l'industriale, quand'era capace di produrre, aveva fatto il 90%».
E ora?
«Ora deve anche sapere vendere, comunicare, distribuire».
Prima che ci colonizzino?
«Sì. Un grosso gruppo cinese sta studiando le nostre aziende migliori. Chiaro che le nostre eccellenze, penso a Eni e Finmeccanica, facciano gola. E sotto speculazione siamo a rischio shopping».
Appunto: la speculazione. Finirà?
«Di sicuro è eccessiva ma dobbiamo ammettere le nostre colpe».


Le maggiori?
«Ci siamo auto danneggiati garantendo posti di lavoro che non c'erano. Prenda Alitalia: fallita perché riempita di persone. Tutte degne. Ma troppe. E lo stesso vale per le tante aziende del Sud, tenute in coma farmacologico. Un'assunzione, un voto».

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