I ministri Pdl sbattono la porta e mettono il premier all'angolo

La telefonata di Alfano a Letta, poi la nota congiunta dei cinque azzurri: "Non ci sono più le condizioni per restare". Ora le dimissioni da Napolitano

Il ministro dell'interno Angelino Alfano
Il ministro dell'interno Angelino Alfano

Roma - «Non riteniamo vi siano più le condizioni per restare nell'esecutivo». Parlano con una sola voce, con una nota congiunta, i ministri Pdl che sanciscono la fine della loro partecipazione al governo Letta pochi minuti dopo il segnale arrivato da Silvio Berlusconi. «Rassegniamo le nostre dimissioni anche al fine di consentire, sin dai prossimi giorni, un più schietto confronto e una più chiara assunzione di responsabilità».
La nota è firmata da Angelino Alfano, Nunzia De Girolamo, Beatrice Lorenzin, Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello, ed è preceduta da una telefonata del ministro dell'Interno che comunica a Enrico Letta la notizia. Nessuna defezione, quindi, tra i rappresentanti azzurri. La delegazione del Pdl sceglie senza troppi tentennamenti (ma non senza malumori) di procedere lungo la via indicata da Berlusconi. «È stata una richiesta del nostro leader, ovviamente non potevamo sottrarci», spiega uno dei ministri dimissionari. Una decisione ovvia e inevitabile di fronte a una richiesta che ha comunque colto di sorpresa la squadra di governo. Fino all'ora di pranzo la convinzione diffusa era che il filo del dialogo fosse ancora intatto, una mediazione possibile e potesse scattare una ricucita last minute. Qualcuno dei ministri arrivava addirittura a ipotizzare una nota di Berlusconi che avrebbe allontanato lo spettro delle dimissioni e in qualche modo assicurato qualche giorno di vita all'esecutivo.
Nel primo pomeriggio, invece, giunge la svolta, con quella nota di Berlusconi che lascia spiazzata la delegazione governativa convinta che il redde rationem sia scattato soprattutto per volontà dei «falchi» che avrebbero trascinato Berlusconi sulle loro posizioni, chiusi nella war room di Arcore. In questo senso il richiamo a quel «più schietto confronto» contenuto nel comunicato viene letto anche in questa chiave: come l'indizio di un malumore che in un momento successivo dovrà portare a un chiarimento interno dentro Forza Italia tra i fautori della linea dura e le colombe. Un malumore che viene reso più esplicito da Fabrizio Cicchitto, rimasto in contatto fino alla tarda sera di venerdì con Maurizio Lupi e Gaetano Quagliariello. È una frase del presidente della Commissione Esteri della Camera che lascia intravedere alcuni dubbi condivisi anche dai ministri dimissionari. «Ritengo che una decisione di così rilevante spessore politico avrebbe richiesto una discussione approfondita e quindi avrebbe dovuto essere presa dall'ufficio di presidenza del Pdl e dai gruppi parlamentari il cui ruolo in questa così difficile situazione politica andrebbe esaltato sia sul piano delle scelte politiche da prendere sia su quello dell'iniziativa politica». Un riferimento a una possibile riunione dei gruppi che avrebbe dovuto tenersi in Parlamento alla vigilia del voto in Giunta delle elezioni il 4 ottobre e che ora è stata ovviamente svuotata di senso. Resta poi da verificare la posizione di Gaetano Quagliariello che nella mattinata di ieri aveva smentito ci fosse una ipotesi dimissioni alle viste. «Dirò come la penso domani mattina al Festival del Diritto di Piacenza dove sarò presente con Stefano Folli, come programmato da tempo» scrive su Twitter il ministro per le Riforme costituzionali.
In verità chi non appartiene né all'uno né all'altro schieramento interno a Forza Italia spiega che, al di là del gioco delle pressioni e delle influenze esterne, e dell'eterno derby tra falchi e colombe «Berlusconi aveva in mente questa soluzione da tempo» spiega un dirigente azzurro. «Si aspettava un segnale politico, non un salvacondotto. Un riconoscimento del suo ruolo di leader che non lo esponesse a un voto parlamentare, in sostanza il minimo sindacale. Chi pensa che si sia fatto dettare la decisione da qualcuno non ha del tutto chiaro il quadro e la drammaticità del momento». A questo punto restano da adempiere le ultime formalità.

Le lettere di dimissioni vanno consegnate al capo dello Stato e - riferiscono a Palazzo Chigi - questo atto per il momento non è stato ancora consumato. A quel punto Enrico Letta deciderà quali e quanti interim assumere su di sé. Per tentare di giocarsi fino in fondo la partita della sopravvivenza.

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