Le lacrime di Schwazer: "Odio la marcia, voglio solo un lavoro"

Le lacrime di Schwazer: "Odio la marcia, voglio solo un lavoro"

Nel palazzo di mezzanotte il soldato Schwazer si è fatto legare ad una colonna per prendersi tutte le frecce di chi, per passione e vendetta, non gli crederà più anche se ha marciato in paradiso. Con la confessione, prendendosi ogni responsabilità, pensava di essersi liberato dalle catene di una popolarità che lo schiacciava, ma non aveva fatto i conti con i cacciatori di taglie, quelli che vogliono portarti via proprio tutto, perché adesso oltre a chiedere indietro il poco che gli è stato dato, vorrebbero le manette e, magari, la confisca della medaglia d'oro di Pechino, quella che vinse quando era felice, sereno e camminava gioioso senza odiare il suo mondo e il suo sport.
In quattro anni un grande campione è diventato il mostro da additare. Poco a poco. Un ritiro, uno sfogo, il cambio di allenatore, il Damilano che adesso guida i cinesi al successo, il marciatore che era andato in confusione nelle scelte perché il suo viaggio in Turchia, ad Antalya, per comprarsi l'epo con 1500 euro («il farmacista non ha fatto domande»), è stato preceduto da tante altre cose, cominciando da quella sosta fin troppo sospetta di due anni fa nel camper del dottor Ferrari, che i NAS chiamano laboratorio, uno che c'è sempre nelle vicende degli atleti che vogliono andare al massimo andando oltre la linea che divide la sana fatica da quella aiutata, un incontro rilevato dalle cimici piazzate dalla finanza sul mezzo del ferrarese che comitato olimpico, organizzazione dell'antidoping, inseguono da tanto tempo anche se molti lo chiamano ancora perché, come diceva Armstrong, altro supervincitore nella bufera anche dopo molti anni, lui sembra il numero uno nella programmazione di un allenamento per dare resistenza.

Alex piange a dirotto davanti alle telecamere spietate con questo ragazzo che ha confessato anche questo incontro, ma poi dice di essersi allontanato appena ha saputo, anche se era una cosa ben nota da tanto tempo, che nel ciclismo questo dottore era considerato un uomo da radiare.
Il soldato Schwazer si dispera e adesso sbatte come una falena contro le ultime luci della ribalta, non vede l'ora di essere dimenticato, una cosa impossibile. Arriva anche al paradosso: «Ha senso anche farsi beccare, per tornare a una vita normale». Accetta la gogna, ma sulle sue lacrime balleranno quelli che sospettano di tutti i vincenti dello sport. Ci ha provato a spiegare quel suo disagio nel vivere in una dimensione dove ogni notte era un incubo, soprattutto le ultime quando sapeva di aver distrutto la sua vita, anche se non aspettava l'ora di aprire la porta a quelli della Wada che sicuramente lo tenevano d'occhio da tempo se si sono presentati ancora il 29 luglio dopo il controllo del 13, il giorno prima che Schwazer si iniettasse l'epo.

Ogni tanto, in quella terribile conferenza stampa dove lo assistevano la sua agente e l'avvocato, rivedevi l'Alex che entrava da trionfatore nello stadio cinese a nido d'uccello, ma poi era costretto a mangiare quella cenere che sarà il suo bagno quotidiano. «Lasciatemi perdere. Datemi un lavoro normale e lo farò bene. Basta con lo sport. Chi bara, e io ho barato, merita la radiazione, ma non coinvolgete altri: chiedo scusa a tutti, a Carolina, al mio allenatore Didoni, ai Carabinieri che mi hanno permesso di fare sport ad alto livello quando avevo 18 anni».

Troppo semplice. No, adesso dovrà camminare a piedi nudi sulle braci che lui stesso ha messo sul cammino che porta dal peccato alla redenzione. Non ha cercato giustificazioni, si vede bene che ha voglia di punizione, ma adesso si rende conto che tutti quelli che erano intorno a lui saranno sospettati.
La disperazione di sentirsi chiedere se Carolina Kostner non si è accorta di niente lo ha mandato all'inferno: «L'ho avvisata per prima, ma lei non sapeva niente, aspettavo che uscisse per allenarsi e prendevo le fiale mascherate in una scatola di vitamina. Carolina è stata straordinaria e quando ho confessato non mi ha girato le spalle. Lei non c'entra con questo mio gesto, la sua popolarità non mi ha schiacciato. Ama pattinare proprio come io ho odiato il mio sport quando mi sono reso conto che se vincevo era merito di tutti e se perdevo accadeva perché ero debole di testa, ero soltanto io a sbagliare».

Non vuole prendersela con nessuno: «La Federazione non sa nulla. Non sono mai stato a Innsbruck come dice il presidente Arese. Mi sono ripromesso di non parlare male di nessuno...». Ma capisce che sarà davvero dura togliere questa macchia su tutti quelli che vivevano con lui, lo vedevano andare fuori di testa anche se marciando nella nebbia milanese sembrava aver ritrovato un mondo diverso, più musica e chilometri, che chilometri e silenzio. Nei marciatori succede. Fanno due, tre gare importanti in quattro anni, come abbiamo già detto, poi devono aspettare il turno del salvatore della patria. Sarebbe stato così anche a Londra dove l'atletica italiana si compiace di belle eliminazioni, di prestazioni modeste, lui lo sentiva e ha fatto l'errore di pensare al doppio impegno. Quella scelta per la 20 chilometri una settimana prima della 50 è diventata la sua croce.

Si è liberato del vero Schwazer e ha lasciato entrare quello che cercava una scusa buona per andarsene, ma quel radiarsi da solo costerà caro. Ha scelto il peccato, ma siamo sicuri, non per farla franca. Era già perduto. Voleva la libertà. Si è trovato in catene.

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