Il matrimonio? Lavoro da fare in due

La ministro Fornero ha ragione: oggi le coppie sposate devono saper collaborare in tutto e per tutto

Il matrimonio? Lavoro da fare in due
Il ministro Elsa Fornero so­stiene, secondo me a ra­gione, che gli uomini spo­sati debbano fare di più in ca­sa. Nel senso che è giusto, in una coppia, spartirsi il lavoro: fra le mura domestiche e fuori. Non è più pensabile che i ruoli del marito e della moglie siano completamente separati. Lei che lava, stira, cuci­na, accudisce ai bambini, e lui che va in giro a sbattersi per garantire alla famiglia il reddito necessario a mandare avanti la baracca.

Da anni la situazione è cambia­ta. Le pari opportunità non sono più soltanto la denominazione di un dicastero. Sono un dato di fat­to. La popolazione universitaria è a maggioranza femminile. Nelle professioni, dalle più semplici a quelle un tempo dominio degli uomini, la parità numerica è stata raggiunta da un pezzo. Già. La pa­rità. Quella dei generi da anni non è un concetto vuoto: è realtà. Di conseguenza, non si capisce per quale motivo marito e moglie deb­ban­o recitare nella commedia co­niugale parti diverse.

D’accordo, la maternità non si può confondere con la paternità. Un maschio, per quanto di buona volontà, non riuscirà a partorire né ad allattare. Ma il presente non è un dibattito di ostetricia. Qui si tratta di prendere coscienza di un mutamento avvenuto in un tren­tennio. Oggi la norma è che mari­to e moglie abbiano gli stessi cari­chi: entrambi hanno un impiego e un impegno analoghi. La sera, quando rientrano nel loro allog­gio, sono stanchi nella stessa mi­sura. Sarebbe assurdo se lui si sprofondasse nel divano a legge­re la Gazzetta dello Sport, mentre lei spi­gnatta in cuci­na, rigoverna, controlla i com­piti dei ragazzi, insomma fa un secondo lavo­ro.

So benissimo che, viceversa, questo succe­de spesso in molte fami­glie. Ma è pro­fondamente sbagliato im­porre alla con­sorte una fati­ca supplemen­tare che, per equità, va con­divisa. Non comprenderlo significa consi­derare la sposa una schiava, non una perso­na con gli stessi diritti e gli stes­si doveri dello sposo.

In altre epoche la maggioran­za delle signo­re, non appena infilata la vera al dito, cessava di lavorare (in proprio o alle dipendenze di qual­cuno) per dedicarsi ai figli e alle faccende domestiche. Altri costu­mi: l’uomo era tenuto ad assicura­re sostentamento alla famiglia, e se ci riusciva egregiamente non aveva altre incombenze; e la regi­na del focolare si dannava per tut­to il resto: prole, pranzo e cena, pu­lizie. Una situazione d’altro tipo era inimmaginabile per il 90 per cento degli italiani. Ma oggi non è più così, evidentemente. Per cui, se lei è avvocato e lui medico, o gli introiti della coppia sono tali da essere sufficienti per pagare una collaboratrice domestica, e maga­ri una bambinaia, oppure, in man­canza di denaro, marito e moglie sono costretti a rimboccarsi le ma­niche e a darsi da fare alla stessa maniera. Ove così non fosse, scatterebbe immediatamente una bella causa di separazione. Difat­ti, si divorzia per corna o per ini­qua distribuzione dei pesi relativi alla famiglia. Tertium non datur .

Si dice che i maschi abbiano scar­se attitudini per stare ai for­nelli, usare la lavatrice, cam­biare i pannoli­ni ai marmoc­chi, spolvera­re, sistemare i letti eccetera. Balle. Non esi­ste una voca­zione per rassettare un ap­partamento: basta rasse­gnar­si a sbriga­re certe faccen­de, che poi non richiedono una prepara­zione speciali­stica. È pur ve­ro che varie donne, nelle fa­si iniziali della convivenza, so­no entusiaste di servire l’uo­mo prescelto, impedendogli di occuparsi di mestieri cosid­detti (erronea­mente) donne­schi. Ma, a lun­go termine, il sovraccarico di lavoro le in­nervosisce; a un dato mo­mento, esauste, si ribellano: e so­no litigi. Perché lui, abituato alle comodità, non intende corregger­si. E lei, convinta (non a torto) di essere sfruttata sia sul fronte pro­fessionale sia su quello domestico, scoppia. L’amore, destinato comunque a ridursi per consunzione, svapora completamente e cominciano le incomprensioni e i dolori, sempre più difficili da sop­portare.

Non rendersi conto che nel terzo millennio la vita, anche quella a due, si è trasformata rispetto al passato, e che occorre adattarsi al nuovo, provoca disastri persona­li e familiari. Quanto alla maschiezza di idee (antiquate), or­mai fanno pena coloro che non vi rinunciano. Non è solo un proble­ma culturale e psicologico, ma anche di egoismo: chi non lo risolve è inidoneo al matrimonio. Che non è obbligatorio e non sempre consigliabile. Meglio single che malmaritati.

Probabilmente sarebbe opportu­no che due fidanzati, prima di compiere il gran passo, al di là dei sogni e dei buoni propositi, si in­terrogassero circa la disponibili­tà effettiva ad aiutarsi secondo il principio della pietas , che non è solamente solidarietà, ma molto di più. Ogni sodalizio merita uno sforzo.

Se uno non se la sente di profonderlo, adotti un ripiego: ci vediamo, ci frequentiamo, ci amiamo, ma ciascuno a casa pro­pria con la propria camera e il proprio bagno. Il resto vien da sé, an­che l’esigenza di imparare a condurre un quartierino. E i figli? Non basta farli. Bisogna volerli e stargli appresso. Altrimenti è pre­feribile non metterli al mondo.

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