Roma - No, niente decreto. Non ci sono le condizioni d’urgenza, spiega Napolitano a Monti, e soprattutto non ci sono le condizioni politiche. Dunque, nessuna prova di forza. All’Italia, sostiene il capo dello Stato, la riforma del lavoro serve come il pane. È una legge «da fare», che ci chiede l’Europa e che «non aprirà la porta a una valanga di licenziamenti», come teme la Cgil. È insomma il cuore palpitante della missione anticrisi del Professore. Ma in questo momento occorre «ampio consenso» e il governo non può permettersi uno scontro frontale con il Pd.
Mario Monti subisce il consiglio del Colle. Ecco allora che Palazzo Chigi vara il disegno di legge «salvo intese», una formula verbale tautologica che sottindende futuri ritocchi, meno indigesti al partito di Bersani. D’altronde, se deve andare avanti, il governo ha bisogno di tutte le gambe, pure di quella di sinistra. Un colpo di freno? Un rallentamento? Un passo indietro? Viste dall’ottica del Quirinale, le cose non stanno proprio così, anzi. Giorgio Napolitano è convinto che «si arriverà a un risultato di cui si potranno riconoscere meriti e validità, perché è una legge da fare». Pensa pure di aver messo la riforma in banca e il governo al riparo. «Si andrà a una discussione in Parlamento dove si confronteranno preoccupazioni e proposte. Naturalmente ci sono posizioni anche contrastanti», però tranquilli, non c’è nessun cataclisma in vista, nessuna macelleria sociale in programma.
C’è solo un sindacato che non si accorge che il mondo è diverso, insiste Napolitano. Il presidente parla a metà mattinata, dopo la cerimonia alla Fosse Ardeatine.
È lui ad avvicinarsi alle transenne, a cercare le telecamere, per fare il punto della situazione, per cercare di fare piazza pulita di polemiche, incomprensioni e posizioni di principio. «Non credo - dice - che si stiano aprendo le porte a licenziamenti in massa. Il problema più drammatico è quello delle crisi aziendali, degli stabilimenti che chiudono. I lavoratori rischiano di perdere il posto non attraverso l’articolo 18 - perché poi bisognerebbe anche sapere a cosa questo articolo si riferisce - ma attraverso il venir meno di determinate attività produttive».
Da qui l’invito a non fermarsi alla cornice, a guardare con maggiore apertura mentale i temi della riforma. Secondo Napolitano quella dell’articolo 18 è infatti una questione marginale, di bandiera. Il cuore del problema è la crisi economica e finanziaria globale che sta facendo saltare un’industria dietro l’altra. Che senso ha difendere il pur legittimo orticello quando è in arrivo un tornado che spazzerà via tutte le coltivazioni della valle? Meglio allora pensare in grande: «Bisogna puntare soprattutto su nuovi investimenti, nuovi sviluppi, nuove iniziative in cui possano trovare sbocchi i giovani».
La parola adesso è al Parlamento. C’è qualche timore a Palazzo Chigi per i tempi, si prevede che sarà impossibile licenziare il testo, e dare quindi un concreto segnale ai mercati, prima delle elezioni amministrative. Paure condivise in una certa misura anche dal Colle. «Troppo spesso la politica non ha saputo guardare lontano - sostiene infatti Napolitano in un videomessaggio per la giornata del Fai - e ha visto soltanto l’utile immediato che si poteva ricavare da una decisione». Invece bisognerebbe «valutare nell’interesse del Paese in una prospettiva di medio e lungo periodo senza tener conto dei vantaggi elettorali». Di più, «bisogna saper resistere alle pressioni improprie». Allude forse a quelle della Cgil sul Pd?
L’impressione è rafforzata da un altro saluto, stavolta al congresso del Pli. «La grande tradizione politica del liberalismo è di grande rilievo nell’attuale momento di trasformazione del Paese.
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