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Ora i Pm ci riprovano: Berlusconi va condannato

Al processo sui diritti tv De Pasquale chiede tre anni e otto mesi. L'ex premier: "Una richiesta assurda"

Ora i Pm ci riprovano:  Berlusconi va condannato

Milano - «Sui soldi ci sono le impronte digitali di Berlusconi»: usa una metafora piuttosto brusca il pubblico ministero Fabio De Pasquale, per spiegare perché Silvio Berlusconi va condannato a tre anni e otto mesi di carcere per frode fiscale. Arrivato al termine di un processo durato (non per colpa della Procura, va detto) la bellezza di cinque anni e mezzo, il pm che alla caccia al Cavaliere ha sacrificato la sua intera vita professionale deve convincere i giudici di due fatti. Il primo è che Fininvest avrebbe organizzato un arzigogolato giro di intermediazioni, società offshore e conti cifrati per gonfiare il prezzo dei film americani da trasmettere in tv, in modo da gabbare il fisco e creare fondi neri; il secondo è che il dominus dell’operazione sia stato Silvio Berlusconi, nonostante in apparenza il Cavaliere all’epoca dei fatti si occupasse di tutt’altro.

E così salta fuori la metafora delle impronte digitali. Il concetto è che i soldi, secondo De Pasquale, finivano poi su conti in Svizzera o alle Bahamas «di cui Berlusconi era il beneficial owner». E che anche dopo la discesa in campo con Forza Italia, il Cavaliere continuò a tenere in mano la sua azienda, «perché il consiglio di amministrazione era zeppo di amici e parenti, a cominciare dai figli». D’altronde, aggiunge il pm con un gioco di parole forse non originalissimo, «il presidente era Confalonieri che era Fedele». A Confalonieri, cui riconosce di essere rimasto «un po’ defilato», ma che avrebbe condiviso appieno le scelte del capo, De Pasquale fa solo un piccolo sconto, e lo candida a tre anni e quattro mesi di carcere.

È una requisitoria lunga e un po’ noiosa, fitta com’è di inevitabili riferimenti ai conti e alle consulenze. Però sul finale De Pasquale riprende tono. Sa di giocare una partita difficile, anche perché appena pochi giorni fa la Cassazione ha prosciolto con formula piena Berlusconi in un processo gemello relativo agli anni successivi, il caso Mediatrade: le motivazioni vengono pubblicate giusto ieri, e parlano testualmente di «totale insufficienza di prove», dicendo che non è stato «offerto dal pm alcun elemento probatorio, preciso e concreto» che Berlusconi gestisse Mediaset. Il rischio che anche questo processo vada a finire così c’è, anche se riguarda anni più remoti, quando i legami tra Berlusconi e la sua ditta erano più stretti. E poi, affonda De Pasquale, «chi ha detto che dopo la discesa in politica Berlusconi ha smesso di seguire i suoi affari? Questa affermazione fa a pugni con tutto quello che leggiamo sui giornali». Gli ribatte in serata Berlusconi: «Durante il mio mandato di presidente del consiglio dei ministri avrei avuto la voglia e il tempo di interferire in una società quotata in borsa ovvero Mediaset, inducendo i suoi numerosi dirigenti e amministratori, che per altro lo negano recisamente, a eludere il fisco alterando una dichiarazione dei redditi per una percentuale di molto inferiore al’1% dell’imponibile dichiarato. Davvero da non credersi!».

Insomma, clima teso.

È forse per questo che nel finale della requisitoria De Pasquale si lascia scappare un’affermazione curiosa: quando spiega ai giudici che «è inutile negarlo, in questi anni Berlusconi ha avuto un ruolo molto particolare nella vita italiana, e quindi non è un imputato come gli altri; per lui serve uno standard probatorio che va aldilà dell'elevata probabilità e deve essere uno standard di certezza»: e negli sguardi del presidente Edoardo D’Avossa e dei giudici a latere si coglie un lampo di stupore, perché di questo trattamento di riguardo è difficile trovare la fonte giuridica. Ora la parola passa alle difese: siamo di fronte, dicono i legali del premier Ghedini e Longo a «cifre totalmente insussistenti e avulse dalle imputazioni». La sentenza dopo l’estate.

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