Lultima volta che ci hanno aperto la portiera era il 1987. Era un amico della mamma che voleva farci sentire grandi e ci stava accompagnando da casa della zia a casa nostra dopo la cena di Natale. L'ultima volta che abbiamo ricevuto dei fiori è stato dall'amico d'infanzia (da sempre segretamente innamorato di noi ma troppo sfigato, o almeno a noi così sembrava, per osare farsi avanti), come omaggio per il giorno dell'esame di maturità. Ogni volta che usciamo a cena con un conoscente maschio si ripresenta l'imbarazzante momento del conto. E quasi sempre, provandoci, alla fine riusciamo a pagare noi. Quel foglietto inopportuno e malefico, allungato dalla mano imbarazzata del cameriere, che si accomoda tra i piatti (in posizione perfettamente equidistante) e porta l'atmosfera al tavolo a una temperatura polare. Perché una cosa sono i commensali prima dell'arrivo della ricevuta, un'altra sono i commensali dopo il suo arrivo. Di una lettera di quelle scritte come si deve (e soprattutto a penna), da parte di qualche spasimante (altro termine desueto, ormai nessuno spasima per nessuno, una o ci sta o si arrangia) non abbiamo nemmeno più memoria. E questo solo per stare sugli esempi più banalotti. E per evitare le considerazioni sull'abbigliamento, su come i nostri commensali impugnino la forchetta, sulle telefonate di ringraziamento d'obbligo che però non ci sono mai arrivate e su un sacco di altre questioni sulle quali ormai si è perso l'allenamento. L'unica buona notizia circa la scomparsa del Gentleman puro, è che nessuno è più in grado di accorgersi della sua scomparsa né di ricordarsi come dovrebbe essere se ancora circolasse. Esistono ancora i gentiluomini? E se sì, che sembianze hanno oggi? Qual è stata la loro (in)naturale «involuzione»? Oggi può essere considerato un gentleman anche uno in canotta che guida un Suv purchè ci offra la cena? O è preferibile uno squattrinato (o tirchio, vai a capire la differenza) che però abbia conservato un'aria bohemien? Sarà più degno dei suoi predecessori (Lord Byron, Brummel, Chesterfield...) uno che usa il congiuntivo o uno che ci fa recapitare a casa un paio di Manolo Blanick e ci invita a vedere la partita al box vip dello stadio di San Siro? A farti gentiluomo è la natura. C'è poco da fare. Lo spiegava bene Tomaso di Lampedusa (e ancora meglio quella scena del film che Visconti ha tratto dal Gattopardo con Alain Delon che arrivava al ballo) e lo spiegava benissimo, alla fine del Seicento, il monarca inglese Giacomo II che, a una madre che lo implorava di nominare gentiluomo il figlio borghese, rispose caustico: «Tutt'al più posso farne un nobiluomo, signora, ma solo il Padreterno potrà farne un gentiluomo...».
E quelli erano ancora uomini che indossavano e di conseguenza si toglievano il cappello, che abbassavano lo sguardo, che cedevano il passo, che andavano a cavallo e campavano grazie alle rendite. Oggi? Se esiste, chi è? E com'è? Gentleman (questa volta il mensile, quello edito da Class Editori, quello diretto da Giulia Pessani, quello che compie dieci anni), li fotografa e li racconta da sempre. Hanno rughe attorno agli occhi spruzzate lì da soli esotici, hanno capelli bianchi e storie antiche oppure pelli toniche e più entusiasmo che esperienza. Raccontano di imprese, mogli, figli, viaggi e vittorie. Confessano gusti, vizi, debolezze, sconfitte. In 10 anni di pagine lucide sono stati gli imprenditori quelli che si sono guadagnati il maggior numero di copertine, seguiti da top manager, architetti, uomini di cultura, banchieri, attori e infine, ma solo infine, principi. A dimostrazione del fatto che gens, razza, stirpe, tribù, qualche volta non bastano. O non servono.
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