I scritti in rivolta, militanti che protestano sui social, dirigenti che reclamano nuovi congressi sul cambio di linea (come Luigi Marattin, che contesta il «cambio radicale di linea» per «l’alternativa al bipolarismo) o che devono digerire bocconi amari (come Lella Paita, assai poco entusiasta dell’intesa sulla Liguria con un ex avversario interno come Andrea Orlando). Dentro Italia viva, dopo l’apertura a sorpresa di Matteo Renzi a Elly Schlein, il clima è burrascoso. «Me lo aspettavo, il casino», dice lui, «e va benissimo: siamo qui per discutere di politica, sono felice di confrontarmi con chi la pensa diversamente. Ma il mio compito, da leader politico, era fare una proposta e indicare una strada, mettendoci la faccia come ho sempre fatto».
E sulla strada da seguire non mostra dubbi: il Terzo Polo è fallito («E sulla sua rottura c’è chi ha responsabilità grosse come una casa», manda a dire a Carlo Calenda), e il quadro politico è ormai «nettamente bipolare»: «Bisogna scegliere se stare di qua o di là». E lui ha scelto: «Faremo l’ala blairiana del centrosinistra». L’auspicato smottamento di Forza Italia, su cui Renzi aveva scommesso, non c’è stato. Così lui prova a ritagliarsi un ruolo destinato a ridurre gli spazi politici dell’ala riformista del Pd. E il patto tra Matteo e Elly ha come punto di partenza (poi si vedrà l’arrivo) il riconoscimento del ruolo della segretaria Pd come candidata premier in pectore del «campo largo», tagliando la strada a chi, nel Pd, sperava di poter lavorare a un «federatore» alternativo. Quanto ai «puristi del terzopolismo», avverte Renzi, «tra qualche mese busseranno alla porta del centrosinistra, o del centrodestra». A cominciare, è la sua convinzione, da Calenda: «Quando inevitabilmente chiederà di sedersi al tavolo del ’campo largo’ troverà Renzi già lì», ironizzanno da Iv.
I mal di pancia di sinistra Pd, M5s o Cgil preoccupano poco o nulla l’ex premier: «Schlein ha capito che contano i voti e non i veti, e nessuno di loro avrà la forza per metterne, se l’obiettivo comune è mandare a casa il governo». Non pare preoccuparlo neppure il referendum anti-Jobs act, lanciato in pompa magna da Landini e sostenuto da un pezzo del Pd, una «operazione puramente nostalgica» che guarda al passato, mentre «è tempo di guardare al futuro, e non al 2014». Del resto, la convinzione del leader Iv è che il quorum, ai referendum, «non ci sarà». Nè per quello della Cgil sul Jobs Act, e neppure per quello contro l’Autonomia differenziata, che Iv sostiene. Ma sul governo, assicura, l’«effetto politico» ci sarà ugualmente: «Lo ho sperimentato da Palazzo Chigi nel referendum sulle trivelle: perse per il quorum, ma se ti ritrovi 13 milioni di elettori contro, l’effetto logoramento c’è ugualmente».
Finisce nel dimenticatoio anche l’idea, pure affacciatasi dopo le elezioni europee, di tirarsi fuori dalla mischia, passare il bastone del comando nel partito a Maria Elena Boschi e occuparsi d’altro: al tavolo delle trattative con il «campo largo», quando ci sarà da discutere di «contratto di programma alla tedesca» e di candidature nei collegi, sarà lui a sedersi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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