La vecchiaia può anche essere un’età bellissima, quando ti permette di guardare con il candore e la pacatezza dell’oggi i dolori e gli affanni di ieri. Quante volte, ripensando al male fatto e subìto quando eravamo giovani, ci appare in fondo comprensibile, scusabile, addirittura inevitabile? È il velo che tutto addolcisce dell’età.
Succede a tutti. Succede anche ai Grandi Vecchi. È successo anche al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, 87 anni il prossimo 29 giugno. Il primo Capo dello Stato a essere stato membro del Partito comunista italiano.
E, secondo la logica dell’anagrafe, anche l’ultimo.
È successo che ieri, su Repubblica , in un’intervista lunghissima, quanto la sua carriera politica, iniziata quando divenne deputato, nel 1953, abbia ripercorso, rispondendo alle domande del giornalista polacco Adam Michnik, direttore della Gazeta Wyborcza , la propria vita, la propria militanza, la propria parabola - più che altro un punto fermo - ideologica. Il titolo, riassume tutto: «Il mio cammino verso il Quirinale attraversando la storia d’Italia». E ripercorrendo la storia d’Italia, Giorgio Napolitano, con l’accondiscendenza del giudizio dell’età «matura», afferma che: «Il Partito comunista italiano non era un partito stalinista come molti altri, in quanto aveva una fondamentale matrice antifascista e democratica e comprendeva forti componenti liberali». Che può essere una splendida evocazione letteraria di un passato eroico, ma non una riflessione obiettiva aderente alla realtà storica. Il Partito comunista italiano, fino al Sessantotto, marciò in maniera disciplinata in un solco tracciato dallo stalinismo, con ben poche concessioni a un’opzione ideologica «liberale». Come dimostra la reazione del Pci ai fatti di Budapest, nel 1956, ricordati nell’intervista. Riscoprendo, alla soglia dei novant’anni, cosa fu davvero il comunismo italiano, Giorgio Napolitano - sull’appoggio all’intervento sovietico a Budapest - ammette che «fu una tragedia, anche per il Pci, un errore clamoroso del gruppo dirigente, anche di Togliatti». Aggiungendo, con la consapevolezza e il senno di poi, che quell’errore servì da «lezione» quando nel 1968 (e Palmiro Togliatti era deceduto da quattro anni) ebbe luogo l’intervento armato dell’Urss e degli altri Paesi del blocco sovietico in Cecoslovacchia.
Con buona pace dei ricordi edulcorati e del «pentimento» tardivo del presidente Napolitano, che il Pci nacque «strutturalmente» stalinista e si trascinò in questa condizione per anni, è testimoniato anche da chi ereditò l’insegnamento di Togliatti («che non ruppe mai il legame con l’Urss»). A proposito di Berlinguer, Napolitano ricorda: «Il grande equivoco fu quello del carattere rivoluzionario del partito. Secondo questa visione mitica, il partito non poteva rinunciare all’idea di un’altra società, di un altro sistema. Berlinguer, che pure era profondamente legato a tutte le conquiste democratiche e che dimostrò di difenderle tenacemente quando esse, in Italia, erano in pericolo, riteneva che il Pci dovesse essere portatore di un’idea (o di un’utopia) di un diverso sistema economico e sociale, di un socialismo radicalmente alternativo al capitalismo». Fino ad ammettere che Berlinguer appariva consapevole già negli anni Settanta che il modello sovietico era semplicemente una dittatura ma «questa convinzione coesisteva in qualche modo con la fiducia nell’utopia di cui ho detto, e in palese contrasto con essa.
Berlinguer manifestò un grandissimo coraggio, quando nel 1977 andò al congresso del Pcus a Mosca per dire che “la democrazia è un valore universale”. L’affermazione fu un colpo fortissimo all’edificio ideologico, propagandistico, creato intorno all’Urss. Ma Berlinguer esitò a trarne tutte le conseguenze». E come Berlinguer, molti altri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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