Renzi non dà fiducia: la chiede Per tredici volte in quattro mesi

Entrato in carica, il premier prometteva: "Mai più". Ora che batte ogni record, i suoi ministri danno la colpa al bicameralismo

Renzi non dà fiducia: la chiede Per tredici volte in quattro mesi

Renzi vuol dire fiducia. L’imperativo è fare pre­sto, rincorrere le pro­messe, tentare di rispettare al­meno qualcuno degli impegni a raffica presi in questi mesi, non esasperare il ritardo già evi­dente nel famoso «cronopro­gramma» del governo, resiste­re alla dura prova del «fact-che­cking». All’inizio del suo man­dato aveva detto: «Mai più fidu­cie sui provvedimenti, specie sulle riforme». Tipica frase da battesimo davanti alle teleca­mere. Naturalmente tra il dire e il fare c’è di mezzo il rapporto con il Parlamento. E così in 100 giorni su 14 decreti legge sono arrivate 13 fiducie.

Una raffica di scorciatoie ta­glia- dibattito che sta facendo crescere un malumore parla­mentare che per ora resta sotto traccia. La media finora è rima­sta costante. Nei primi 70 gior­ni erano state sei, una ogni 11-12 giorni, tre al mese. Ades­so- con la pausa estiva alle viste e la difficoltà di «stringere» sul­le misure concrete - il ricorso a questo istituto tende ad aumen­tare. Molto probabile ad esem­pio una doppia fiducia, una al­la Camera e una al Senato, sul decreto che riforma la Pubbli­ca amministrazione, se e quan­do­il testo prenderà davvero for­ma dopo le correzioni appron­tate dal Quirinale.

Certo qualche dubbio su que­sta sovra­ incidenza della taglio­la parlamentare circola perfi­no nel governo visto che non sempre ci si muove nel ristretto perimetro della necessità e del­l’urgenza e le forzature sono in agguato. La decisione di accor­pare il decreto Pa con quello Ambiente, ad esempio, è lega­to al timore di «sfidare» troppo Giorgio Napolitano con una doppia richiesta. Per il mini­stro delle Riforme Maria Elena Boschi è una strada obbligata ed è «colpa del bicamerali­smo». Per Renzi la colpa è di chi «vuole trasformare il Parlamen­to in un set cinematografico», leggi Movimento 5 stelle. Per l’opposizione, della fretta e del­la politica degli annunci che rende confusi i provvedimenti. Il meccanismo è quello di sem­pre: un «emendamento-catte­drale» sostitutivo del testo. Meccanismo rischioso come ha dimostrato la sentenza di febbraio della Consulta sulla Legge Giovanardi sulla droga, bocciata perché nel decreto di conversione furono inseriti contenuti estranei alle finalità del decreto.

In passato il capo dello Stato puntò il dito in più di una occa­sione e denunciò il pericolo di una marginalizzazione del Par­lamento e di un indebolimento del suo ruolo di controllore. Per ora dal Colle tutto tace. E non in­gannino le parole di Napolita­no di sabato, «c’è più fiducia, è indubbio», riferita alla ripresa e non al rapporto tra governo e Parlamento. I numeri, però, la­sc­iano intravedere il consolida­mento di un non troppo glorio­so «primato». Silvio Berlusco­ni, nel corso del suo ultimo mandato, tra l’8 maggio 2008 e il novembre 2011, chiese per 53 volte la fiducia: 1,26 voti al me­se ( il Berlusconi II in cinque an­ni era arrivato a 31). Il secondo governo Prodi, in carica dal 17 maggio 2006 al 7 maggio 2008, vi fece ricorso 28 volte, in linea con la media del successivo go­verno Berlusconi.

Il governo Monti nei suoi 529 giorni accu­mulò ben 51 voti di fiducia, cir­ca 3 al mese (suscitando la rea­zione dell’allora vicepresiden­te del Senato, Vannino Chiti). Enrico Letta in 10 mesi mise a se­gno 12 fiducie, 1,2 al mese. Infi­ne Renzi, con 13 in quattro mesi tocca oggi quota 3,25. Un re­cord nell’utilizzo di quella (ex) anomalia, ora diventata prassi.

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