Renzi vuol dire fiducia. L’imperativo è fare presto, rincorrere le promesse, tentare di rispettare almeno qualcuno degli impegni a raffica presi in questi mesi, non esasperare il ritardo già evidente nel famoso «cronoprogramma» del governo, resistere alla dura prova del «fact-checking». All’inizio del suo mandato aveva detto: «Mai più fiducie sui provvedimenti, specie sulle riforme». Tipica frase da battesimo davanti alle telecamere. Naturalmente tra il dire e il fare c’è di mezzo il rapporto con il Parlamento. E così in 100 giorni su 14 decreti legge sono arrivate 13 fiducie.
Una raffica di scorciatoie taglia- dibattito che sta facendo crescere un malumore parlamentare che per ora resta sotto traccia. La media finora è rimasta costante. Nei primi 70 giorni erano state sei, una ogni 11-12 giorni, tre al mese. Adesso- con la pausa estiva alle viste e la difficoltà di «stringere» sulle misure concrete - il ricorso a questo istituto tende ad aumentare. Molto probabile ad esempio una doppia fiducia, una alla Camera e una al Senato, sul decreto che riforma la Pubblica amministrazione, se e quandoil testo prenderà davvero forma dopo le correzioni approntate dal Quirinale.
Certo qualche dubbio su questa sovra incidenza della tagliola parlamentare circola perfino nel governo visto che non sempre ci si muove nel ristretto perimetro della necessità e dell’urgenza e le forzature sono in agguato. La decisione di accorpare il decreto Pa con quello Ambiente, ad esempio, è legato al timore di «sfidare» troppo Giorgio Napolitano con una doppia richiesta. Per il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi è una strada obbligata ed è «colpa del bicameralismo». Per Renzi la colpa è di chi «vuole trasformare il Parlamento in un set cinematografico», leggi Movimento 5 stelle. Per l’opposizione, della fretta e della politica degli annunci che rende confusi i provvedimenti. Il meccanismo è quello di sempre: un «emendamento-cattedrale» sostitutivo del testo. Meccanismo rischioso come ha dimostrato la sentenza di febbraio della Consulta sulla Legge Giovanardi sulla droga, bocciata perché nel decreto di conversione furono inseriti contenuti estranei alle finalità del decreto.
In passato il capo dello Stato puntò il dito in più di una occasione e denunciò il pericolo di una marginalizzazione del Parlamento e di un indebolimento del suo ruolo di controllore. Per ora dal Colle tutto tace. E non ingannino le parole di Napolitano di sabato, «c’è più fiducia, è indubbio», riferita alla ripresa e non al rapporto tra governo e Parlamento. I numeri, però, lasciano intravedere il consolidamento di un non troppo glorioso «primato». Silvio Berlusconi, nel corso del suo ultimo mandato, tra l’8 maggio 2008 e il novembre 2011, chiese per 53 volte la fiducia: 1,26 voti al mese ( il Berlusconi II in cinque anni era arrivato a 31). Il secondo governo Prodi, in carica dal 17 maggio 2006 al 7 maggio 2008, vi fece ricorso 28 volte, in linea con la media del successivo governo Berlusconi.
Il governo Monti nei suoi 529 giorni accumulò ben 51 voti di fiducia, circa 3 al mese (suscitando la reazione dell’allora vicepresidente del Senato, Vannino Chiti). Enrico Letta in 10 mesi mise a segno 12 fiducie, 1,2 al mese. Infine Renzi, con 13 in quattro mesi tocca oggi quota 3,25. Un record nell’utilizzo di quella (ex) anomalia, ora diventata prassi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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