Che qualcosa di clamoroso stesse per accadere era nell'aria già da tempo. Troppa la tensione, soprattutto rabbia. Poi sciolti i dubbi e rotti gli indugi, il colpo di scena: gli imprenditori della nautica hanno deciso, compatti, di disertare la cerimonia inaugurale del 52° Salone Nautico di Genova di domani. Niente picchetti d'onore, niente alzabandiera, niente motovedette, niente auto blu a sirene spiegate. Basta passerelle-spot: quando il corteo dei politici, con immancabile codazzo, farà il tradizionale giro degli stand, troverà il vuoto. C'è disagio tra gli imprenditori del settore: sono terrorizzati del domani che offre poche certezze. Nonostante tutto, hanno messo mano alle ultime risorse disponibili per non mancare all'appuntamento più importante della stagione. Da qui la «protesta silenziosa e civile» per ricordare al governo che il settore è al collasso e rischia di sparire. «Di questo passo - dice il presidente di Confindustria Nautica, Anton Francesco Albertoni - il prossimo anno possiamo dire addio al salone».
La crisi della nautica si era già fatta sentire questa estate con oltre 35mila barche fuggite dai porti italiani, braccate dal fisco e questo ha messo in mutande centinaia di migliaia di lavoratori dell'indotto: ristoratori, albergatori, commercianti a vario titolo, piccoli e grandi centri di refitting e manutenzione.
Sopravvivono solo le grandi aziende, attrezzate per stare sul mercato estero. Un imprenditore che nel 2008 aveva fatturato un miliardo di euro, 50% in Italia e 50% all'estero: «Nel 2011 siamo scesi a 600 milioni, ma solo grazie all'export che ormai vale il 98% del nostro giro d'affari». Facile capire che cosa rimane in Italia.
Non poteva andare davvero peggio al viceministro per le Infrastrutture e Trasporti, Mario Ciaccia. Imbarazzante a dir poco il suo debutto sul palcoscenico mondiale della nautica. Qualche numero per capire meglio: fatturato a 6,4 miliardi nel 2008; crollo a 3,4 miliardi nel 2011; una previsione ottimistica a 2,5 miliardi nel 2012; mercato interno vicino a quota zero. Velo pietoso sui 20mila posti di lavoro bruciati e centinaia di aziende medio-piccole, anche nell'indotto, strozzate dalle banche e dalla pressione fiscale.
«Questa decisione è pesata molto al consiglio direttivo di Ucina - aggiunge Albertoni - ma vuole essere un messaggio forte e chiaro. Nel 2011, governo Berlusconi ancora in carica, l'emorragia sembrava bloccata. Oggi la crisi della nautica da diporto non arriva da lontano, è tutta italiana. Ce la siamo cercata e voluta perché questo governo ha pensato che le priorità per il Paese fossero altre. Non vogliamo che il Salone diventi un campo di battaglia, ma oggi vogliamo dare un segnale di discontinuità».
Sono mesi che la nautica lancia messaggi alla politica e al governo. Senza riscontri. «Messaggi costruttivi - lo sfogo di Albertoni - per ristabilire un rapporto di serenità, che si era interrotto con l'introduzione della tassa di stazionamento, poi modificata in tassa di possesso. Che in ogni caso ha fatto terra bruciata in tutto il comparto».
La protesta - precisa una nota Ucina - non chiude tuttavia alla volontà di mantenere aperto un dialogo con le istituzioni non solo nazionali, «incontrandole già all'assemblea pubblica che non a caso è stata prevista al posto dei tradizionali discorsi inaugurali, per un confronto dal quale ci aspettiamo una presa di coscienza».
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