Rosi rimane in trincea: la corrente dei resistenti sfida le purghe di Bobo

La Mauro lancia l’opposizione interna. I seguaci di Maroni divisi tra "giacobini" che vogliono le epurazioni e "terzopolisti moderati"

Rosi rimane in trincea: la corrente dei resistenti sfida le purghe di Bobo

Milano - Il giorno dopo l’espulsione di Rosi Mauro è iniziata la Norimberga della Lega. Chi ha toccato il Cerchio e adesso rischia di scomparire con un colpo di scopa, mediamente si difende così: «Ho obbedito agli ordini e sono stato fedele a Bossi». Lo ha fatto ieri Monica Rizzi, di cui Roberto Maroni ha chiesto la testa in Lombardia, e lo aveva fatto prima di lei quel Marco Reguzzoni considerato il capo della cordata poi tramutatasi in cappio. La Rizzi e Reguzzoni, lei indagata per una storiaccia di dossier interni, e lui mai comparso neppure in mezza telefonatina di Francesco Belsito, sono il simbolo di quel che sta accadendo.
Il fatto è che sul banco degli imputati sono finiti tutti i cerchisti, indagati e no, o almeno questo è il loro timore. Che li vadano a prendere poltrona per poltrona. Magari non Reguzzoni, «farne un martire sarebbe un boomerang». Ma tutti gli altri. «Non ci espelleranno, basterà emarginarci, a cominciare dalla scelta dei delegati al congresso federale, per finire con le liste elettorali» paventano. Non a caso, l’altro giorno nel bailamme del caso Mauro, il consiglio federale ha affrontato anche il nodo dei delegati al congresso, nonostante numero e metodo di selezione siano già indicati dallo Statuto. Del resto le spine di Rosi parlano da sole. Dicono i maroniani che lei ha scelto di venire cacciata perché «tanto che ci sta a fare nella Lega di Bobo, con la base che la aspetta per picchiarla?». Aggiungono che comunque l’espulsione era determinante per evitare che si mettesse alla guida dei cerchisti. Loro, orfani di Rosi non ci si sentono, anzi, dicono che facendosi espellere «ha dimostrato di avere i controcoglioni», e adesso, da fuori, potrà non solo «ripulirsi l’immagine», ma anche aiutare le truppe a riorganizzarsi. Non a caso, aggiungono, il comunicato stampa di Rosi lo ha dettato l’Umberto, prima di andarsene via con lei in rotonda amicizia. Vero o no, i «mai maroniani» stanno lavorando a una corrente. Visti i tempi si potrebbe chiamare dei «resistenti», anche se ammalia il nome antico di bossiana (e manzoniana) memoria, «Fratelli su libero suol». Obiettivo: «Fare opposizione a Maroni, anche se abbiamo numeri meno aggressivi dei suoi», e «tutelare chi finirà nel mirino». Sul fronte opposto della barricata, anche i maroniani, già Barbari sognanti, si stanno diversificando. Di qua i «giacobini», quelli della pulizia con le ghigliottine. Di là i «terzopolisti», che consigliano moderazione e dialogo in nome dell’unità.
La fotografia dei due gruppi è stata scattata a Varese nella giornata dell’orgoglio padano. Dalla patria di Umberto e di Bobo sono partiti due pullman. Quello della Circoscrizione 1 di Stefano Cavallin, che a Bergamo andava con il seguente spirito: «Le espulsioni? Dobbiamo aspettare le risultanze delle indagini, almeno noi rispettiamo lo Statuto». E poi l’«Eretibus», con a bordo militanti agguerriti capitanati dal senatore Fabio Rizzi, il cui spirito era l’opposto: «Questo non è il momento della cautela, ma della spada: faremo le espulsioni indipendentemente dalle inchieste». Dicono che il primo a patire la situazione sia quel Giampaolo Dozzo che Maroni volle capogruppo alla Camera al posto di Reguzzoni. Pare che abbia minacciato addirittura le dimissioni nel giorno del passo indietro di Bossi, quando scrisse a tutti un sms vietando la partecipazione a trasmissioni tv. Per una Carolina Lussana che obbedì, un Gianluca Pini e un Giovanni Fava se ne fecero un baffo. Segno della difficoltà a tenere unito il gruppo, in un clima avvelenato anche dal fatto che l’aspirapolvere di Bobo non ha ancora toccato i maroniani. Non Davide Boni, che da indagato resta presidente del consiglio regionale lombardo. E non l’alfiere di Bobo in Romagna, quel Pini che rischia un processo e con una certa spavalderia ieri diceva: «Nella Lega è in atto una pulizia che riguarda pochi e ben noti soggetti, non una caccia alle streghe, non saremo così pirla da delegittimarci a vicenda».
Il primo banco di prova sarà il congresso in Lombardia. Se i giacobini danno già per certa la vittoria dell’attivissimo Matteo Salvini, i terzopolisti lo osteggiano. Perché, avvertono, per quel ruolo serve una figura più equidistante, più simile al sempre defilato Giancarlo Giorgetti. Ma anche perché temono che Salvini alle prossime Politiche piazzerà «i suoi Giovani padani», con tanti saluti ai peones che speravano in un secondo giro.

Nel mezzo la sponda veneta, Flavio Tosi il ribelle con Maroni, Gian Paolo Gobbo il bossiano con i resistenti. E i piemontesi, con la «non corrente» di Roberto Cota, il governatore impegnato nel difficile tentativo di tenersi fuori dalle guerre interne.

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