Rosi si commuove ma tiene duro: «Messa in croce, non mi dimetto»

Rosi si commuove ma tiene duro: «Messa in croce, non mi dimetto»

RomaAllora che fa, Rosi la tosta, si dimette? Macché. «Non vedo perché dovrei. Non ho nulla da nascondere, non ho fatto niente di male, non ho mai preso un euro». E le transazioni di denaro? «Ci sono solo alcune donazioni del partito al sindacato padano, tutte rintracciabile attraverso i bonifici e gli estratti conto. La Lega sapeva, Bossi sapeva, tutti sapevano perché non c’era nulla di illegale». E le intercettazioni, quei 29mila franchi da dare alla Nera? «Ma la Nera non sono io, è l’infermiera svizzera che segue Umberto da quando è stato in clinica». Quanto a Moscagiuro, «non è il mio amante, è il mio caposcorta». No, non se ne va, il Carroccio dovrà cacciarla, il triumvirato l’ha già abbandonata. «Il comitato - dice Roberto Calderoli - le ha ufficialmente sollecitato le dimissioni».
Bossi aveva ragione: «La Rosi è una tosta». Tostissima. Infatti eccola, con la giacca blu e i tanti capelli neri raccolti in una coda, che spunta dagli schermi di Porta a Porta, la terza Camera, per annunciare che lei non ha alcuna intenzione di lasciare la vicepresidenza della seconda. Non ora almeno, non così tra i fischi e i lazzi, non prima di dare battaglia dagli scranni di Palazzo Madama. «Non vedo la ragione per cui dovrei dimettermi. Da giovedì mi sento messa in croce, sono sottoposta a un processo mediatico senza precedenti. Ho il diritto di far conoscere la verità, ho il diritto di difendermi e lo farò dal Senato». Sfiderà l’aula, come Craxi. «Voglio spiegare come stanno le cose e poi vedremo». Intanto i triumviri preparano l’espulsione. «Vedranno loro. Prima mi voglio difendere, poi deciderò».
E in quel «poi» c’è tutta la exit strategy di Rosi Mauro per cercare di uscire bene dalla melma. Cioè una vaga promessa di dimissioni post-datate, «che possono essere imminenti e non imminenti», il passo indietro che da tre giorni tutti le domandano di fare per il bene del Carroccio. La moral suasion di Renato Schifani, le bordate dei maroniani, le richieste della base, le pressioni del centrosinistra, i colloqui con Bossi. Persino un amico come Calderoli la invitava a compiere «un gesto opportuno che ci aiuterebbe». Lei però resisteva. L’altra sera, al Capo che le diceva di mollare, la Mauro ha risposto che «non vedeva i presupposti» e che voleva andare a Porta a Porta per fare sentire a tutti le sue ragioni.
Eppure in mattinata sembrava fatta. L’abbandono pareva una questione di ore, da via Bellerio spiegavano addirittura che la lettera di dimissioni era pronta, forse già preannunciata a Palazzo Madama. L’ufficio di presidenza del Senato l’ha aspettata a lungo, ma come in un giallo la comunicazione formale delle dimissioni è poi sparita nel nulla, è rientrata in un cassetto. Bossi è dovuto tornare alla carica, inutilmente. «Per la prima volta oggi ho detto di no a Umberto, non era mai successo», racconta. E piange.
Lacrime tante, ma niente passi indietro. Perché, prima di gettare la spugna, Rosi la dura vuole almeno salire sul ring. Qualche colpo lo tira già dalla tv, contro i suoi. «La Lega non mi ha mai dato un soldo. C’è la donazione al sindacato padano, ci sono estratti conto con la mia firma e si può verificare tutto. Il partito era assolutamente informato».
Ma la cosa che le brucia, dice, è la storia dell’amante mantenuto. «Questa è un’altra nefandezza, qui mi hanno colpito pure nella mia vita privata. È assurdo, è inconcepibile». Pier Moscagiuro, sostiene il vicepresidente del Senato, non è un ex poliziotto. «È il mio caposcorta e non è in aspettativa come è stato scritto ma in forza all’ispettorato del Senato». Un’altra «balla», come quella della Nera. «Erano indietro con i pagamenti dell’infermiera di Bossi. Anche questo è facile da verificare».

Come la laurea comprata all’estero. «Non è vero niente. Non è mai passata per l’anticamera del cervello l’idea di iscrivermi ad un’università, in Svizzera o altrove. Figuriamoci, io a scuola sono sempre stata un’asina...».

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