Molto interessante l'intervista rilasciata ieri al Sole-24 ore dal comandante generale della Guardia di finanza, Saverio Capolupo. Ecco il titolo: «Blitz inutili, lotta mirata all'evasione». E nel corpo dell'intervista leggiamo: «Non è una metodologia d'intervento che condividiamo e, come detto in altre circostanze faccio presente che la Gdf non ha partecipato al blitz di Cortina». L'avrà detto certamente in altre circostanze, ma circostanze molto recenti; e comunque non all'epoca dei fatti quando il Giornale fu isolato e sbeffeggiato per aver criticato i blitz.
Il generale sottolinea la non partecipazione al blitz, ma è proprio sicuro che le Fiamme Gialle non abbiano partecipato ai blitz che seguirono? Risulta dalla semplice lettura dei giornali che nelle operazioni fatte dopo soli pochi giorni in Toscana (Viareggio) e Liguria (Portofino e non solo) non si presentarono agenti della Befana, ma una trentina di uomini della Guardia di Finanza. Perché dissociarsi da Cortina e non da Portofino?
E cosa risponde ad Attilio Befera, ex uomo forte dell'Agenzia delle entrate, che ha recentemente rivendicato i successi di incasso derivanti proprio da quel blitz? Befera, che non parla, dal canto suo potrebbe replicare: «Ma se la Gdf svolge così bene il suo silenzioso lavoro di contrasto all'evasione e ha un presidio anche a Cortina, ebbene perché non si è resa conto per tempo di ciò che avveniva in quel luogo?». Per carità Befera mai si sognerebbe di rispondere così esplicitamente. Sembra che siamo in pieno vizio italico: quando un potente (Befera) molla, tutti a dargli contro. Noi, che un certo pedigree di antibeferismo ce lo siamo meritato quando era potente, oggi vorremmo quasi difenderlo (sì, sì lo sappiamo, siamo poco credibili in questa difesa d'ufficio).
Caro generale, avendo contestato questa sua tardiva presa di posizione, così come la recente nomina di una pasdaran di Visco alla guida dell'Agenzia delle entrate, ci aspettiamo, a breve, un bel controllo fiscale e per questo ci permettiamo con somma reverenza di farle notare un altro aspetto della sua intervista che non ci va giù. Lei rivendica «che nei primi cinque mesi dell'anno i reparti del corpo hanno avanzato proposte di sequestri patrimoniali per reati fiscali per circa un miliardo e già eseguito misure ablative per quasi 500 milioni». E ancora «le attività investigative svolte fanno emergere procedure d'appalto viziate da irregolarità per 1,1 miliardi». Caro generale, questi numeri non dicono niente. Forse fanno prendere qualche premio ed encomio a dei suoi sottoposti. Ma in Italia esiste ancora, almeno sulla carta, il diritto e il giusto processo. Quante multe e quanti accertamenti finiscono in niente? Ecco generale, ci dica quante delle vostre indagini terminano, magari dopo anni, con un'assoluzione? Ci dica quante delle vostre multe finiscono in un nulla di fatto?
Fino a quando in questo paese i funzionari pubblici potranno compiacersi delle manette preventive messe alla proprietà privata senza la conclusione di un giusto processo, ci saranno migliaia di innocenti, di artigiani, imprese, società di capitali che perderanno il lavoro e la vita professionale per far sì che il funzionario di turno possa vantarsi delle ingenti multe e delle supposte frodi che ha scoperto.
Nulla di personale generale Capolupo, il discorso vale anche per i suoi colleghi della forestale, della repressione frodi, di tutte quelle polizie e controlli e bla bla che su questi numeri prosperano, mentre dietro di loro ci sono storie e vessazioni di cui voi umani non potete immaginare: avete idea di quante aziende sono crollate o sono state zittite per presunte colpe che poi negli anni si sono rivelate sconclusionate? Sarebbe molto più serio un Paese in cui i funzionari pubblici dicessero con precisione quanto riscosso al termine di un processo e non quanto accertato (termine fuorviante e che denota un pregiudizio filopubblico) nel mezzo di un'indagine.
I dipendenti pubblici si insinuano in un varco che ovviamente crea la politica. Basti pensare a cosa sta avvenendo riguardo a due recenti interventi normativi di tipo fiscale. Il primo riguarda la riforma del catasto. È di tutta evidenza che vi siano delle sperequazioni inaccettabili tra zone della medesima città. Ma il rischio che corriamo è che si proceda semplicemente all'aumento delle rendite (fittizie) per tutti e dunque a un innalzamento (reale) delle imposte.
Il secondo riguardo l'ottimo tentativo di rendere il fisco più semplice. All'uscita delle prime indiscrezioni sulla manovra del governo che prevede la semplificazione fiscale, abbiamo fatto un commento a caldo sulla versione internet di questa zuppa. Il titolo del post è: «Il 730 di Renzi, ma quale semplificazione». Il testo è poi stato rilanciato come sempre su twitter. Non vogliamo fare una storia multimediale di questa faccenda. Ma dire soltanto che il premier, via twitter ha così risposto: «Caro Nicola, ho passato il tuo post ai tecnici che stanno lavorando alla semplificazione. Ma sono meno pessimista di te». È evidente che il premier a questa semplificazione ci crede davvero ed è giusto che chi governa sia più ottimista di chi scrive, ma vogliamo dare un ulteriore consiglio non richiesto: in materia di semplificazioni Renzi deve diffidare dai tecnici. Più che a loro deve rivolgersi a una nuova categoria di consiglieri: i pratici. Quelli che sanno, perché vivono le disgrazie della quotidianità, compresa quella fiscale. La palude non è solo quella della politica, ma anche quella del fisco, caro presidente.
P.S. Vogliamo dare un consiglio non richiesto anche Diego Della Valle, quando si occupa di arzilli vecchietti, in particolare Giovanni Bazoli: prendere di mira gli arzilli vecchietti senza pensare agli allegri nipoti è rischioso. Prendiamo il mitologico genero di Bazoli, tal Gregorio Gitti, avvocato da Brescia. Qualche anno fa si mise in testa, con alcuni soci (sodali, direbbe Della Valle) di mettere in piedi una Fondazione. Era alla disperata ricerca di un nome. La poteva chiamare Fondazione Bazoli. O Fondazione Gitti, dall'avo parlamentare. O Fondazione Leonessa, dalla zona in cui insiste la dinastia. Pensa che ti ripensa che arriva il nome perfetto: Fondazione Etica. Tra i soci fondatori (ovviamente una pattuglietta) chi ha scovato? Romain Zaleski, il finanziere franco-polacco che prendeva in prestito i soldi in banca per poi investire in Borsa. Nel contempo diventava anche azionista delle banche che gli concedevano generosi prestiti. Si parla di miliardi. Il problemuccio è che una di queste banche è Intesa, proprio quella dove dominus da anni è proprio Bazoli, papà della moglie di Gitti. Fabio Pavesi (il più attento dei giornalisti italiani a fare i conti sulla vicenda) ci ricorda come Zaleski abbia recentemente venduto la sua ultima quota di azioni in Intesa, realizzando una perdita che negli anni si avvicina al miliardo. E a sua volta Intesa avrebbe già scontato perdite su prestiti al finanziere per 500 milioni e 800 ulteriori sono in incaglio. Per Gitti tutto ciò è normale. Cioè è normale che il genero faccia sedere in una Fondazione, chiamata «etica», colui che ha fatto tutti questi pasticci finanziari al suocero.
Come probabilmente lo è prendere parcelle (è il riferimento che fa Della Valle a un'inchiesta della procura sulla gestione di Ubi, banca fatta dalla coppia Bazoli-Zanetti) dalle banche del giro bazoliano. Gitti e la figlia di Bazoli, secondo l'accusa, avrebbero avuto benefici professionali da alcune operazioni fatte da Ubi Banca. Sarà il magistrato a stabilire la verità, ma basta leggere i bilanci e la composizione degli organi sociali per vedere gli intrecci di Bazoli senior e junior che ci sono in quelle banche e controllate tra Bergamo e Brescia.
Gitti è anche un parlamentare e, secondo una ricostruzione rilasciata dal premier Renzi a Repubblica, è spregiudicatello: «L'altro giorno nella mia stanza è venuto il capogruppo di Italia Popolare, una persona perbene come Dellai. Con lui si è presentato un deputato (Gitti, ndr) del suo schieramento e mi ha detto Se volete il nostro accordo, a noi cosa date?. Gli ho chiesto di uscire dalla stanza. Siamo al governo del Paese, non al mercato del bestiame».
Caro Della Valle, va bene i vecchietti, ma i giovani dove li mettiamo?
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