La tensione c'è ed è palpabile, se non altro perché da qualche giorno le uscite pubbliche di Alfano spingono per la prima volta il Pdl proprio in quella direzione che il Cavaliere ha più volte detto di non gradire. Non solo il restyling di un partito che Berlusconi continua a non sentire più suo, ma anche l'insistere su una sorta di appuntamento congressuale da tenersi il 2 dicembre a Roma per annunciare nuovo nome e nuovo simbolo. Una soluzione di compromesso, secondo l'ex premier, e non quel taglio netto con il passato di cui c'è bisogno per tentare davvero il rilancio. Alfano la vede in modo diverso e, sostenuto da tutto il gruppo dirigente di via dell'Umiltà, punta ad un rinnovamento che non sia però un azzeramento. Vuole cioè essere parte attiva del restyling e non una delle «vittime». Lo vuole lui che comunque non sarebbe certo tra i «rottamati» ma lo vuole soprattutto una classe dirigente che dopo quattro o cinque mandati parlamentari ancora non si rassegna.
È di tutto questo che Berlusconi è stufo, non solo perché ragiona in privato da tempo li ho «letteralmente pregati» di mandare avanti volti nuovi e mi hanno ignorato, ma pure perché il Pdl è ormai un brand che non funziona più e che tutti associano alla vecchia politica, al Laziogate e alle ultime vicende che hanno portato all'implosione della giunta regionale della Lombardia. Che il Cavaliere voglia fare «altro», dunque, non è un segreto per nessuno. A differenze del «cosa», visto che è lo stesso Berlusconi a dire che una decisione ancora non l'ha presa. Perché l'idea di dar vita ad una sua lista («L'Italia che lavora» è effettivamente uno dei nomi più gettonati) può essere declinata in mille modi, tra cui quello di candidare solo giovani professionisti e imprenditori che non abbiano mai messo piede in Parlamento prima (non fosse per il problema dell'immunità che, visto l'attivismo di alcune procure, fa sempre comodo sarebbe pronto a non candidarsi anche lui). Di certo, dice ai suoi interlocutori, non è mai esistita l'idea di una lista delle «amazzoni», anzi pare che Berlusconi non abbia affatto gradito che alcune deputate siano andate in giro a dar pagelle ai colleghi (ormai da giorni in Transatlantico si sprecavano i siparietti in cui questo o quel deputato chiede al collega se è nella «lista dei buoni» o nella «lista dei cattivi»).
Ma di fronti aperti ce ne sono tanti. Soprattutto c'è il solco tra Berlusconi e Alfano che con il passare dei giorni sta diventando sempre più largo. L'ex Guardasigilli ha infatti deciso di uscire dall'angolo e da qualche settimana non nasconde ai suoi colleghi di non gradire affatto gli stop and go del Cavaliere, tanto che in più d'una occasione ha provato a forzare la mano. L'ultima ieri, quando da Catania ha fatto sapere che la prossima settimana l'ex premier sarà in Sicilia a sostenere Nello Musumeci. Magari Berlusconi ha cambiato idea, ma fino a ieri andava dicendo ai suoi collaboratori di non voler andare proprio perché ritiene dannoso associare la sua immagine al simbolo del Pdl. Il punto, però, è che sulla partita siciliana Alfano avrebbe deciso di giocare il tutto per tutto. Dovesse vincere Musumeci il segretario d'accordo con un altro siciliano doc come il presidente del Senato Schifani rilancerebbe pubblicamente la sua leadership con un altro appello a Casini (che nel caso di sconfitta del candidato Pd-Udc Rosario Crocetta potrebbe essere più sensibile).
A quel punto si vedrà che intenzioni ha davvero Berlusconi rispetto al Pdl. Se si accontenterà di azzerarlo oppure se lo lascerà a se stesso per fare una nuova lista. Certo, sembra che il Cavaliere non abbia gradito alcuni «ispirati articoli» che sul nascere hanno di fatto stroncato il nome su cui più stava puntando in questi giorni («L'Italia che lavora»), attribuendogli un 4% di consensi che non risulterebbe in alcun sondaggio (anche perché la rilevazione definitiva di Euromedia è attesa per lunedì).
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