La vera Cassazione ha sede al Quirinale. L’annuncio che Giorgio Napolitano sta seguendo il «caso Sallusti»fa il paio con l’intervento di Carlo Azeglio Ciampi nel «caso Jannuzzi ». Era il 2005: davanti a una stortura giudiziaria, fu il Colle a dirimere la questione con un provvedimento di grazia, prerogativa esclusiva del capo dello Stato ( che è pure presidente del Consiglio superiore della magistratura). Nella giungla di leggi e leggine, e nell’intrico delle interpretazioni delle toghe, spesso il presidente della Repubblica rimane l’ultimo approdo per avere giustizia.
Il caso di Lino Jannuzzi ( nel tondo ) esplose nel 2004. Giornalista,scrittore,autore negli anni ’ 60 con Eugenio Scalfari delle clamorose inchieste sullo scandalo Sifar pubblicate dall’ Espresso ( che costarono pesanti condanne per diffamazione dalle quali i due si salvarono con l’elezione in Parlamento nel Psi di Nenni), Jannuzzi doveva finire in carcere per un cumulo di condanne: la pena complessiva ammontava a due anni, cinque mesi e dieci giorni di reclusione. La pietra dello scandalo erano alcuni articoli pubblicati negli anni '90 sul Giornale di Napoli dedicati alle inchieste su Enzo Tortora. Jannuzzi, che dirigeva quel foglio, criticò l’impianto delle accuse e la gestione dei pentiti.
Il tempo gli avrebbe dato ragione, le toghe no. La storia del presentatore tv falsamente accusato è entrata nelle antologie della malagiustizia, eppure Jannuzzi doveva pagare ugualmente. «Quando ti metti contro i magistrati è difficile che altri magistrati ti diano ragione», chiosò dopo essere stato graziato. Il giornalista, che nel 2001 era stato eletto al Senato come indipendente di Forza Italia, combatté strenuamente sia per evitare il carcere, sia perché il Parlamento modificasse la legge fascista che prevede la detenzione per i giornalisti riconosciuti colpevoli di diffamazione. Nel 2002 il tribunale di sorveglianza di Napoli ne aveva disposto l’arresto con questa motivazione: «L’attività giornalistica che continuerebbe a svolgere è da ritenere inidonea a favorire il processo rieducativo del condannato e a preservare con efficacia il pericolo di recidiva». Gli furono negate tutte le misure alternative previste dalla legge Simeone, dall’affidamento in prova alla semilibertà. Dovettero intervenire Palazzo Madama e la Farnesina per fare valere lo «status internazionale del senatore e l’immunità assoluta dalla giurisdizione» di cui godeva grazie a incarichi diplomatici. L’esecuzione della pena fu sospesa per due anni e gli ordini di carcerazione revocati.
Ma allo scadere della sospensione per Jannuzzi si stavano aprendo i cancelli di Poggioreale. Fu il tribunale di sorveglianza di Milano, nel giugno 2004, a trasformare il carcere in detenzione domiciliare con la possibilità di uscire di casa dalle 8 alle 19 per gli obblighi parlamentari e con il divieto di lasciare l’Italia senza autorizzazione del giudice. Il settantasettenne Jannuzzi era a Parigi per un incontro internazionale ( era membro del Consiglio d’Europa) quando apprese la notizia. Il senatore minacciò di restarsene in Francia come Oreste Scalzone e altre primule rosse del terrorismo. Poi però rinunciò all’immunità parlamentare e si sottopose agli arresti domiciliari decisi dal giudice di sorveglianza di Milano con il consenso dell’allora sostituto procuratore generale Edmondo Bruti Liberati, oggi procuratore capo del tribunale milanese.
L’avvocato di Jannuzzi, Grazia Volo, presentò subito la domanda di grazia che il presidente Ciampi accolse otto mesi dopo, il 16 febbraio 2005. Tre anni di giudizio, interventi del Consiglio d’Europa, dei magistrati di Napoli, Milano e Monza. La politica applaudì concorde alla concessione della grazia: tra gli altri, Giuliano Pisapia, allora responsabile giustizia di Rifondazione comunista, che la definì «una scelta condivisibile, ineccepibile e opportuna».
Come avrebbe svelato Adriano Celentano pochi mesi dopo nel programma Rockpolitik, il caso Jannuzzi fece precipitare l’Italia nella classifica redatta da «Freedom House » sulla libertà di stampa.
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