Toccò a Ciampi salvare Jannuzzi

Benché senatore e incensurato, a 77 anni rischiava di finire a Poggioreale. Le "colpe" del giornalista: dallo scandalo Sifar al caso Tortora. Il Quirinale lo graziò

La vera Cassazione ha sede al Quirinale. L’annuncio che Giorgio Napolitano sta se­guendo il «caso Sallusti»fa il paio con l’inter­vento di Carlo Azeglio Ciampi nel «caso Jan­nuzzi ». Era il 2005: davanti a una stortura giudiziaria, fu il Colle a dirimere la questio­ne con un provvedimento di grazia, preroga­tiva esclusiva del capo dello Stato ( che è pu­re presidente del Consiglio superiore della magistratura). Nella giungla di leggi e leggi­ne, e nell’intrico delle interpretazioni delle toghe, spesso il presidente della Repubbli­ca rimane l’ultimo approdo per avere giusti­zia.
Il caso di Lino Jannuzzi ( nel tondo ) esplo­se nel 2004. Giornalista,scrittore,autore ne­gli anni ’ 60 con Eugenio Scalfari delle clamo­rose inc­hieste sullo scandalo Sifar pubblica­te dall’ Espresso ( che costarono pesanti con­danne per diffamazione dalle quali i due si salvarono con l’elezione in Parlamento nel Psi di Nenni), Jannuzzi doveva finire in car­cere per un cumulo di condanne: la pena complessiva ammontava a due anni, cin­que mesi e dieci giorni di reclusione. La pie­tra dello scandalo erano alcuni articoli pub­blicati negli anni '90 sul Giornale di Napoli dedicati alle inchieste su Enzo Tortora. Jan­nuzzi, che dirigeva quel foglio, criticò l’im­pianto delle accuse e la gestione dei pentiti.

Il tempo gli avrebbe dato ragione, le toghe no. La storia del presentatore tv falsamente accusato è entrata nelle antologie della ma­lagiustizia, eppure Jannuzzi doveva pagare ugualmente. «Quando ti metti contro i magi­strati è difficile che altri magistrati ti diano ragione», chiosò dopo essere stato graziato. Il giornalista, che nel 2001 era stato eletto al Senato come indipendente di Forza Ita­lia, combatté strenuamente sia per evitare il carcere, sia perché il Parlamento modificas­se la legge fascista che prevede la detenzio­ne per i giornalisti riconosciuti colpevoli di diffamazione. Nel 2002 il tribunale di sorve­glianza di Napoli ne aveva disposto l’arre­sto con questa motivazione: «L’attività gior­nalistica che continuerebbe a svolgere è da ritenere inidonea a favorire il processo rie­ducativo del condannato e a preservare con efficacia il pericolo di recidiva». Gli furono negate tutte le misure alternative previste dalla legge Simeone, dal­l’affidamento in prova alla semilibertà. Dovettero in­tervenire Palazzo Mada­ma e la Farnesina per fare valere lo «status internazio­nale del senatore e l’immuni­tà assoluta dalla giurisdizione» di cui godeva grazie a incarichi diplo­matici. L’esecuzione della pena fu sospesa per due anni e gli ordini di carcerazione re­vocati.

Ma allo scadere della sospensione per Jannuzzi si stavano aprendo i cancelli di Poggioreale. Fu il tribunale di sorveglianza di Milano, nel giugno 2004, a trasformare il carcere in detenzione domiciliare con la possibilità di uscire di casa dalle 8 alle 19 per gli obblighi parlamentari e con il divieto di lasciare l’Italia senza autorizzazione del giu­dice. Il settantasettenne Jannuzzi era a Pari­gi per un incontro internazionale ( era mem­bro del Consiglio d’Europa) quando appre­se la notizia. Il senatore minacciò di restarse­ne in Francia come Oreste Scalzone e altre primule rosse del terrorismo. Poi però ri­nunciò all’immunità parlamentare e si sot­topose agli arresti domiciliari decisi dal giu­dice di sorveglianza di Milano con il consenso dell’allora sostituto procuratore generale Edmon­do Bruti Liberati, oggi procu­ra­tore capo del tribunale mi­lanese.

L’avvocato di Jannuzzi, Grazia Volo, presentò subi­to la domanda di grazia che il presidente Ciampi accolse otto mesi dopo, il 16 febbraio 2005. Tre anni di giudizio, inter­venti del Consiglio d’Europa, dei magi­strati di Napoli, Milano e Monza. La politica applaudì concorde alla concessione della grazia: tra gli altri, Giuliano Pisapia, allora responsabile giustizia di Rifondazione co­munista, che la definì «una scelta condivisi­bile, ineccepibile e opportuna».
Come avrebbe svelato Adriano Celenta­no pochi mesi dopo nel programma Rockpo­litik, il caso Jannuzzi fece precipitare l’Italia nella classifica redatta da «Freedom Hou­se » sulla libertà di stampa.

Il senatore com­mentò: «Sono lusingato: conto tantissimo, più della tv di stato e della lottizzazione. Il mio caso stava diventando peggio dell’affa­re Dreyfus», cioè il clamoroso errore giudi­ziario che turbò la Francia di fine ’800.

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