«Io, centenario morto due volte» «Ucciso» nella Seconda guerra mondiale. Poi in un campo di concentramento russo Il suo aereo è precipitato in Francia e non si è salvato nessuno. Ma è rinato di nuovo

Nella sua lunga vita, Melchiorre Piazza è già morto due volte. La prima in guerra: «Uccisero un soldato che indossava il cappello che avevo perso, c’erano ricamate le mie generalità e così mi scambiarono per lui e mia moglie per tre anni portò il lutto». La seconda invece, è un po’ più recente: «Mi trovavo nel nord della Francia per lavoro, un giorno persi l’aereo per un pelo e proprio quello cadde così tutti pensarono, di nuovo, che fossi morto, mentre me ne stavo pacifico in attesa, all’aeroporto di Bruxelles».
Farà 105 anni il prossimo 22 agosto il signor Melchiorre, ma non ha ancora perso la voglia di scherzare: «Sa perché non dimostro la mia età - mi chiede con i suoi due occhi vispi e la sua memoria d’acciaio -? Perché bisogna sottrarne 38, gli anni che avevo quando sono tornato dalla prigionia in Russia, nel preciso istante in cui io sono rinato».
Ci ride su il signor Melchiorre, ma poi basta poco perché il suo sguardo si faccia improvvisamente serio, mentre ricorda quegli anni lontani: la temperatura che scendeva anche a meno 25 gradi, quella fame che ti faceva svenire e soprattutto lo strazio nel vedere i soldati che morivano uno dopo l’altro e la difficoltà di reperire del legno, per costruirgli delle bare.
«E pensare che io neppure ci dovevo andare in guerra, ma poi quel giorno mi si è rotto qualcosa dentro». Fa una lunga pausa prima di continuare a raccontare di quel giorno in cui un operaio della fabbrica di cellulosa che lui dirigeva tornò dalla guerra senza gambe. «L’ho visto e poco dopo sono andato nell'ufficio dell’esercito di via Torino, per dire che rinunciavo all’esonero, sentivo che era giusto partire».
Prima un periodo di addestramento in Piemonte e poi dritto in Russia, dove poco dopo venne fatto prigioniero. «Io sono sempre stato anticomunista al 100 per cento e non l'ho mai nascosto, neppure in quei momenti: ero sicuro che non ce l’avrei mai fatta a tornare a casa sano e salvo, tanto valeva essere sinceri». E invece dopo circa sei mesi trascorsi in diversi campi di concentramento, una notte del 1945, all’improvviso lo liberarono e da lì iniziò la sua avventura verso Milano, la città che lo aveva adottato quando da neolaureato aveva lasciato Palermo per cercare fortuna.
«Ricordo come fosse ieri il momento in cui io e i miei compagni arrivammo sotto la tettoia della Stazione Centrale: prima di salutarci ci siamo promessi di non dimenticare mai quello che c'era accaduto, cosa avevamo visto e quanti di noi non erano riusciti a tornare a casa». Da lì nacque l’Unir, l’Unione reduci di Russia, «che per anni ci ha fatto lavorare incessantemente con lo scopo di riportare in patria le salme dei caduti e far conoscere a tutti le atrocità che avevamo subito».
Dalla stazione a casa, e di quella sera rammenta ancora quanto avesse trovato diversa sua moglie: «Era diventata secca, non pareva più lei!». Quasi quanto lui, partito 74 chili e tornato 33. «Non riuscivo a mangiare seduto a tavola e così per i primi tempi ho continuato a starmene in disparte e poi il letto, sembra assurdo, ma c’è voluto del tempo anche per riabituarmi a dormire su un materasso morbido».


Seduto sulla poltrona, elegante come un vero uomo d’altri tempi, Melchiorre potrebbe parlare per ore e così quando non c’è nessuno che lo ascolta si mette a leggere Il Giornale, «che compro da una vita», oppure a scrivere, «perché ho sempre avuto la penna facile». Il suo cruccio: «Conservo tutto nel mio archivio ma sono un gran disordinato». Poi la promessa: «Giuro che fra dieci anni riordinerò tutto quanto!».

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