Alan D. Altieri
Dino. Da Thule, Groenlandia, a Wellington, Nuova Zelanda, per chiunque compri il biglietto d’ingresso a una sala cinematografica o paghi il pezzo di un dvd - più tutti gli altri che fanno i furbi - il nome Dino è più che sufficiente. Esatto: Dino De Laurentiis, verosimilmente il più grande produttore cinematografico di tutti i tempi. Quasi settant’anni di carriera sempre al massimo dei giri, di pellicola e non. Centinaia di film, da ribadire: centinaia-di-film, realizzati in due continenti, Europa e Stati Uniti. Filo diretto con svariate generazioni di registi considerati maestri del cinema e di attori/attrici considerati/e mostri sacri. Abbastanza statuette di premi Oscar e David di Donatello da riempirci gli scaffali di un’intera biblioteca. Alla data dell’otto agosto 2009, Dino De Laurentiis compie novant’anni. Qualcuno pensa che stia per fermarsi? Tutto sbagliato, forse Dino sta solo ri-cominciando...
Dottor De Laurentiis, a detta di molti, moltissimi, lei è considerato una vera e propria «leggenda vivente». Si riconosce in questa definizione?
«A Los Angeles, devo ammettere che tutti mi chiamano in questo modo. Una curiosità recente: per decreto emanato dal Governatore Arnold Conan-Terminator Schwarzenegger, lo stato della California ha deciso di istituire un “Dino De Laurentiis Day”, data ancora da definirsi con esattezza, ma collocabile nel mese di settembre. Lo scopo: che nel futuro ci si possa ricordare... dell’uomo, non della leggenda».
In ogni caso, le leggende non nascono dal nulla. Sono gli uomini a costruirle. In che modo è riuscito a costruire la sua?
«Non è mai stata mia intenzione costruire leggende, solamente fare film. Quando negli anni ’70 arrivai dall’Italia negli Stati Uniti, a New York, per la precisione, sapevo poco o nulla sia della lingua inglese che del cinema americano. Ecco il matto italiano, era la battuta che serpeggiava nell’industria cinematografica a quell’epoca».
In che modo «ha compiuto l’impresa»?
«Facendo film puramente americani che mi hanno convinto a restare. Qualcosa che sbalordì tutti».
Quali film?
«Vorrei citare solamente i due che considero i più significativi: I tre giorni del Condor e Serpico. Entrambi basati su libri pressoché sconosciuti, entrambi con un forte concetto narrativo di base: la corruzione. Nel caso del Condor all’interno della Cia, nel caso di Serpico all’interno del Dipartimento di Polizia di New York. All’epoca, acquisii i diritti cinematografici di Serpico per cinquecentomila dollari solamente dopo avere letto i primi capitoli. Di nuovo, mi diedero del matto italiano. Una volta che il film divenne realtà, smisero di dirlo. Credo di avere “compiuto l’impresa” in questo modo».
Secondo lei chi è oggi il produttore di cinema?
«Questa domanda mi venne posta anche da uno studente durante un mio intervento alla Columbia University. Il produttore di cinema riassume in sé due caratteristiche. Quella creative in quanto realizzatore di prodotti che fanno sognare il pubblico; e quella industriale quale coordinatore di molte azioni diverse, ricerca del progetto, esecuzione delle sceneggiature, scelta del regista, ma soprattutto finanziere. Per ottenere e gestire tutto questo in armonia, la chiave di volta è la credibilità professionale».
Lei ha fama di grande scopritore di talenti.
«È esattamente questo che sono e che voglio continuare a essere. Nel dare fiducia al talento giovane e inedito entrano in scena due componenti in apparenza antitetiche, in realtà sinergiche. Da un lato c’è la temerarietà del produttore che scommette sullo sconosciuto; dall’altro il desiderio di quel medesimo sconosciuto di dare il meglio di sé. È così che all’epoca spuntarono grandi artisti come Al Pacino e Jessica Lange (nei tondi) e, più di recente, registi di straordinaria inventiva quali i Fratelli Wachowski e Jonathan Mostow».
Restando in argomento, nei suoi decenni da vate del cinema, lei ha lavorato con tutti i più grandi registi e i più grandi attori. Con quali di loro tornerebbe a lavorare in un battito di ciglia?
«Non avrei alcuna esitazione per Ridley Scott e Milos Forman, parlando di maestri. Quanto ai più giovani, di nuovo Jon Mostow, e i Wachowski Bros».
Dopo tanti anni di lavoro durante i quali ha fatto tante scelte rischose, c’è qualcosa che non ripeterebbe?
«Non riaffiderei a David Lynch la regia di un kolossal di fantascienza quale all’epoca fu Dune. David è un prodigioso concettualista e visualista. Velluto blu, il film che in quegli anni ’80 nessuno voleva toccare e che io volli comunque produrre, è ancora oggi considerato il suo capolavoro. Dune per contro, con le sue strane creature e la sua filosofia a “stati di alterazione”, richiedeva un diverso approccio da quello che David volle dargli».
Torniamo a oggi. Da «Transformers» a «Terminator Salvation», dai grandi kolossal in arrivo come «2012» di Roland Emmerich e «Avatar» di James Cameron, abbiamo un’autentica eruzione di superfilm giocattolo, costosissime versioni di Disneyland in digitale. Favorevole o contrario?
«Certamente favorevole per quanto concerne l’innovazione tecnologica, ormai ineludibile. Al tempo stesso, non ritengo che le persone, e di conseguenza i personaggi, debbano essere sacrificate ai giocattoli. Una storia umana valida funziona sempre di più di qualsiasi artifizio tecnologico».
Tra una pessima sceneggiatura e una superstar disposta a farla e una grandiosa sceneggiatura e nessuna star disposta a farla, cosa sceglierebbe?
«Nessun dubbio: la grandiosa sceneggiatura. La mia filosofia è che l’unica vera star di un film è lo script. Dalla quale perfino un regista mediocre potrà tratte un grande film».
Dottor De Laurentiis, quali
«Quelli di sempre: scommettere sui giovani. È questo che sottolineai quando mi diedero il premio Irving Thalberg alla carriera. I giovani sono il futuro, sempre».
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.